
di Théo Court (Cile/Spagna, 2019)
Théo Court è nato a Ibiza nel 1980 da genitori cileni: per adesso la sua carriera ha raggiunto l’apice del successo con questo “Blanco En Blanco” (“White On White”), un valido lungometraggio premiato a Venezia nel 2019 nella sezione Orizzonti. Si tratta di un film plumbeo, lento e avvolgente, girato quasi esclusivamente nelle zone più fredde e impervie della Terra del Fuoco, tra Cile e Argentina.
Il protagonista delle vicende (ambientate agli albori del ventesimo secolo) è un fotografo di nome Pedro (Alfredo Castro), chiamato in causa dal fantomatico signorotto del luogo (tale Mister Porter) per immortalare la sua futura sposa, una ragazzina neppure maggiorenne di nome Sara. Se inizialmente “Blanco En Blanco” scivola nel (melo)dramma più ambiguo e pruriginoso (l’infatuazione di Pedro per questa giovane è racchiusa in un paio di scene di rara eleganza), con la seconda metà dell’opera entriamo a fondo nella dimensione storica degli eventi, perché da queste parti gli indigeni sono inesorabilmente schiacciati e umiliati dall’arroganza dei bianchi: una sottomissione che culmina in un lungo e crudele epilogo da cinema neo-western, dove le infinite distese di neve lasciano il posto a un vasto territorio spoglio e desolato (per realizzare queste ultime sequenze la troupe è volata fino a Tenerife).
Le meravigliose location ci comunicano un senso di solitudine a dir poco alienante (le riprese in campo lungo avvalorano queste sensazioni), da qui infatti è quasi impossibile andar via: inoltre Pedro, approcciando la timida Sara, ha osato sfidare questo antagonista invisibile di nome Porter (lui è una sorta di divinità per gli abitanti del villaggio), mettendo a repentaglio la sua dignità oltre che la sua professionalità (il regista lo ha definito un pedofilo estetico, ispirandosi al tanto discusso scrittore di epoca vittoriana Lewis Carroll). In questo covo di ubriaconi e di individui privi di morale, l’unico modo per sopravvivere è dunque diventare complici della comunità, esaltandone le gesta dietro un obiettivo. A tal proposito, l’unico difetto vistoso della pellicola è quello di cambiare registro in maniera fin troppo repentina, lasciando in disparte il perverso tormento sentimentale del fotografo-voyeur per fare spazio al dramma, non meno intenso, di questa terra bagnata dal sangue.
L’ottima regia di Théo Court (bravo anche nella direzione degli attori) può farci tornare in mente il cinema più sobrio e fosco di Pablo Larraín, un accostamento estetico e concettuale figlio di una scuola cinematografica cilena sempre in pieno fermento intellettuale. Il bianco della neve, il bianco di un abito da sposa, il bianco di una purezza in procinto di essere deflorata: il film è racchiuso all’interno di questa silente sovrapposizione che ci riporta dritti al titolo dell’opera, una denominazione in apparenza rassicurante ma in realtà densa di aspetti oscuri e controversi. Un candido velo che ricopre i tanti orrori ormai rimossi dalla memoria di una nazione.

(Paolo Chemnitz)
