
di Yukun Xin (Cina, 2017)
Quando il cinema cinese si spinge a nord (le zone settentrionali dello Shanxi ma soprattutto la regione autonoma della Mongolia Interna), c’è poco da stare allegri: miniere, corruzione, sfruttamento del lavoro e luoghi spesso brulli e desolati, è questa la cornice dentro la quale prendono forma delle storie quotidiane cariche di rabbia e di disperazione. Lo abbiamo già visto nel primo frammento del must “Il Tocco Del Peccato” (2013) ma anche nello splendido documentario del 2015 “Behemoth”. Una tradizione che prosegue con l’ultima fatica cinematografica di Yukun Xin, ormai datata 2017.
Zhang Baomin, un minatore muto e dal carattere difficile, viene messo al corrente del rapimento di suo figlio (il ragazzino stava badando alle pecore quando sparisce all’improvviso). Per l’uomo ha così inizio una ricerca senza sosta, non priva di situazioni spiacevoli: l’incontro con il cinico imprenditore Chang Wannian si rivela infatti cruciale per la risoluzione del mistero, soprattutto quando entra in gioco un terzo individuo, l’avvocato Xu Wenjie, anch’egli alle prese con una figlia rapita. Un plot in apparenza semplice ma in realtà piuttosto complesso, proprio per via dei vari intrecci tra questi personaggi (ce ne sono altri sullo sfondo non meno importanti) che vanno a sommarsi a una critica sociale ben definita, uno sguardo disilluso sulla corruzione e sui metodi poco ortodossi con i quali i potenti della zona acquisiscono i terreni delle piccole imprese.
“Wrath Of Silence”, ovvero la collera del silenzio: è il rancore infatti a scatenare le azioni del protagonista Zhang Baomin, una metafora piuttosto chiara considerando che l’uomo è impossibilitato a parlare. La sua è la rabbia (muta) delle classi più povere, dunque dei minatori e dei contadini, la cui esistenza è segnata dall’arroganza e dalla disumanità dei ricchi speculatori che li opprimono. Anche per questo motivo quello di Yukun Xin è un film cupo e violento, in cui la carne da macello (onnipresente nel film) può diventare anche un oggetto contundente per colpire un nemico. Il paesaggio arido della Cina rurale non fa che accrescere questo disagio diffuso, probabilmente il vero punto di forza della pellicola.
Ciò che invece convince di meno è la narrazione, in alcuni passaggi troppo confusa e farraginosa (queste due ore di visione non passano affatto in fretta), anche perché non è facile entrare in sintonia con Zhang Baomin e con gli altri personaggi del film: senza la giusta immedesimazione da parte dello spettatore, “Wrath Of Silence” non penetra a dovere fin sotto la pelle, scivolando via in maniera superficiale al di là di un degno e riuscito epilogo, altro punto a favore per il regista cinese. Una pellicola dunque da guardare più per l’affascinante contesto sociale/antropologico che per la storia in sé, sospesa dentro una suggestiva confezione generale ma mai capace di prenderci per la gola mettendoci con le spalle al muro.

(Paolo Chemnitz)
