Satan’s Slaves

di Joko Anwar (Indonesia, 2017)

Forte di una discreta esperienza alle spalle, nel 2017 Joko Anwar alza decisamente l’asticella mettendosi in gioco con il remake di un celebre horror indonesiano, “Pengabdi Setan” (“Satan’s Slaves” per l’appunto), pellicola originariamente diretta nel 1982 da Sisworo Gautama Putra. Il soggetto resta immutato ma Joko Anwar (che sognava di girare questo film fin dagli albori della sua carriera) cambia non poco le carte in tavola, consapevole di poter offrire al pubblico un prodotto più patinato e per certi versi commerciale (una scelta che si rivela azzeccata, considerando gli ottimi riscontri al botteghino ottenuti sia in patria che al di fuori dei confini nazionali).
Ambientato nel 1981, il film si sviluppa attorno alla figura della giovane Rini e dei suoi fratelli più piccoli, una famiglia in difficoltà finanziaria dopo la malattia che ha colpito la loro mamma, una ex cantante di successo immobilizzata a letto per via di una malattia sconosciuta. Quando la donna passa a miglior vita, l’atmosfera diventa ancora più pesante, perché in quella grande casa cominciano a manifestarsi degli inquietanti fenomeni sovrannaturali, tutti legati alla scomparsa della madre defunta.
Joko Anwar punta su una confezione moderna e competitiva, praticamente impeccabile sotto ogni punto di vista (ottima la fotografia, così come le scenografie), ridisegnando in maniera più stratificata una storia che già a suo tempo aveva terrorizzato gli spettatori indonesiani: qui infatti ci sono più personaggi (tra cui un fratellino sordomuto) e c’è una maggiore attenzione per le location (non a caso la casa isolata si trova di fronte a un cimitero), tutte peculiarità che trasformano “Satan’s Slaves” in un lungometraggio quasi inedito rispetto alla precedente esperienza del 1982.
Non lascia invece grandi ricordi una narrazione fin troppo farraginosa, traducibile con uno script quasi esclusivamente incentrato sulle suggestioni ma molto meno convincente quando si tratta di mettere i personaggi al centro del discorso (il film non riesce a ingranare la fatidica marcia in più neppure con l’entrata in gioco del predicatore islamico). Tuttavia al regista indonesiano non manca né l’astuzia né la bravura nel saper gestire l’angoscia e la tensione, due aspetti che si sommano a una certa originalità di fondo dettata soprattutto dalla provenienza del prodotto, a tratti stereotipato nella costruzione dell’orrore ma sempre dotato di una sua precisa identità folkloristica e culturale. Praticamente un biglietto da visita fondamentale che ha permesso a Joko Anwar di ampliare gli orizzonti con il successivo “Impetigore” (2019), fino a questo momento il suo indiscusso apice cinematografico.

(Paolo Chemnitz)

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