
di Andrey Zvyagintsev (Russia, 2014)
Tra i registi russi emersi con l’avvento del nuovo secolo, Andrey Zvyagintsev (classe 1964) si è spesso distinto per l’elevata qualità delle sue pellicole, molte delle quali hanno ottenuto importanti riconoscimenti in giro per il mondo. “Leviathan” è una di queste (miglior film straniero ai Golden Globe 2015 e poi ancora nella cinquina finale degli Oscar, sempre nella stessa categoria). Il titolo dell’opera si riferisce al Leviatano, il mostro marino di cui si parla nella Bibbia, una figura poi utilizzata simbolicamente da Thomas Hobbes nell’omonimo libro pubblicato nel 1651, un celebre volume di stampo politico: per il filosofo britannico, il Leviatano rappresenta infatti lo Stato assoluto, un grande corpo le cui membra sono formate dai cittadini-sudditi (i quali rinunciano alla propria porzione di libertà per poter vivere in pace).
In un piccolo villaggio sul mare di Barents (siamo dalle parti di Murmansk), il protagonista Kolya prova a ribellarsi davanti all’iniquo e ingiusto tentativo di esproprio della sua casa: inizia così una lotta burocratica (ma anche una guerra di nervi) tra lui e il sindaco Vadim, un uomo corrotto molto vicino alla chiesa ortodossa locale. Grazie all’aiuto dell’amico Dmitriy (un avvocato moscovita), Kolya cerca di controbattere colpo su colpo la prepotenza delle istituzioni, una resistenza destinata tuttavia a crollare davanti all’autorità del sistema e alla fragilità dei suoi rapporti sentimentali (parallelamente alla vicenda principale, scorre un dramma familiare contornato da incomprensioni, tradimenti e tragedie).

Nell’opera di Andrey Zvyagintsev si respira soltanto amarezza e pessimismo, perché il singolo cittadino non può nulla al cospetto del potere politico e religioso, in questo caso fuso in una sola feroce entità. Il regista di Novosibirsk non lascia filtrare neppure un raggio di luce o di speranza, raccontandoci soltanto di un lento tracollo in cui si scende sempre più in basso. “Leviathan” è un film dal ritmo compassato e fin troppo lungo nel minutaggio (ben centoquaranta minuti), ma al termine di queste due ore abbondanti di visione ne usciamo assolutamente ripagati: prima di tutto c’è una location fantastica (la plumbea cittadina di Kirovsk è diventata persino una meta turistica dopo le riprese del film) e poi ci sono degli ottimi interpreti, perfettamente calati nella parte soprattutto quando si tratta di recitare in stato di ebbrezza (la vodka scorre a fiumi e qui si beve per davvero!).
Alla sua uscita, “Leviathan” fu aspramente criticato da alcuni ambienti istituzionali del paese: non a caso qui la classe politica ne esce distrutta, così come la chiesa ortodossa e gli stessi cittadini (di qualsiasi ceto sociale), dipinti praticamente come degli ubriaconi incapaci di rapportarsi tra loro con lucidità. Il motore trainante dell’opera va comunque ricercato proprio nei suoi presunti stereotipi e nelle sue profonde metafore (il gigantesco scheletro sulla spiaggia), una forza concettuale devastante capace di ridurre all’impotenza ogni possibile inversione di rotta. Per Zvyagintsev ancora un ottimo lavoro dunque, un film da vedere obbligatoriamente in lingua originale (imperdibile la lettura della sentenza!) e possibilmente in accoppiata con “Durak”, un eccellente dramma russo sempre del 2014 stavolta diretto da Yuriy Bykov (sono molti gli aspetti in comune tra questi due lungometraggi). Un’esperienza di totale rassegnazione, perché il Leviatano è arrogante e indistruttibile.

(Paolo Chemnitz)
