Killers

di Kimo Stamboel e Timo Tjahjanto (Indonesia/Giappone, 2014)

“Killers” è una pellicola che risale al 2014, quando i Mo Brothers (ovvero Kimo Stamboel e Timo Tjahjanto) erano ormai sulla bocca di tutti. Eppure ancora oggi questo lungometraggio sa tanto di occasione mancata, di una battuta parzialmente a vuoto all’interno di una filmografia nel complesso positiva, culminata nel 2018 con l’action estremoThe Night Comes For Us” (opera diretta dal solo Tjahjanto).
Questo è un prodotto molto ambizioso, a cominciare dalla sua estenuante durata di due ore e diciassette minuti. La storia si snoda tra Giappone e Indonesia, seguendo due rette parallele destinate inesorabilmente a incrociarsi: da un lato, conosciamo un sadico serial killer (Nomura) a caccia di ingenue donzelle da portare a casa e da ammazzare senza pietà (l’uomo riprende ogni omicidio con una telecamera, per poi sciogliere le vittime nell’acido), mentre dall’altra parte della barricata incontriamo Bayu, un giornalista allo sbando con una situazione delicata anche sul fronte familiare. Se Nomura carica i suoi atroci video sul web, Bayu ne segue le gesta da Jakarta come se fosse un fan curioso, fino a quando lo stesso indonesiano si ritrova tra le mani il filmato di una sanguinosa rapina da cui ne è uscito miracolosamente vivo. C’è qualcosa in comune tra questi due personaggi, un’attrazione morbosa destinata a sfociare in qualcosa di molto pericoloso.

Alle spalle di questo malsano thriller c’è una produzione importante, sempre divisa tra Giappone e Indonesia (se “Cold Fish” e “The Raid” vi dicono qualcosa, non è difficile capire di chi stiamo parlando), solo che dietro queste succulente premesse si nasconde un film troppo lungo e non molto chiaro per quanto concerne il rapporto che lega i due protagonisti. “Killers” ci mette un po’ a carburare, si riscatta durante una discreta parte centrale e infine si conclude con un finale non del tutto soddisfacente. In mezzo a tutto ciò, per fortuna si alternano alcune scene davvero esaltanti che rimettono per un momento le cose a posto: quella della rapina dentro l’automobile è girata benissimo, ma in generale tutte le sequenze action funzionano a meraviglia e sono spesso accompagnate da una buona quantità di violenza estrema (a cui bisogna aggiungere il sadismo gratuito che accompagna le azioni sconsiderate dello psicopatico giapponese).
È dunque la sceneggiatura a non rendere giustizia a un film altrimenti valido, un lavoro penalizzato da uno script confuso e prolisso incapace di spiccare il volo. L’idea dello snuff, della morte mostrata (quasi) in diretta e di questa strana complicità tra i due protagonisti avrebbe meritato una sorte migliore, proprio alla luce delle indiscutibili potenzialità dei Mo Brothers e di un cinema indonesiano in quel periodo al top della forma (“The Raid 2: Berandal” uscì a distanza di poche settimane). Con una bella sforbiciata di trenta minuti, sarebbe andata a finire decisamente meglio. 

(Paolo Chemnitz)

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