The Village

di M. Night Shyamalan (Stati Uniti, 2004)

Se con il pregevole “Il Sesto Senso” (1999) il regista indiano naturalizzato americano M. Night Shyamalan era riuscito a mettere d’accordo tutti, la sua restante filmografia ha diviso sia pubblico che la critica fino ai giorni nostri. In attesa di vedere “Old” (2021), non abbiamo ancora trovato modo di spendere due parole su pellicole a nostro avviso poco riuscite, come ad esempio “The Visit” (2015) o “Split” (2016). Al contrario, è arrivato il momento di parlare di “The Village”, uno dei suoi lavori più interessanti nonostante un potenziale espresso solo al sessanta-settanta per cento.
All’epoca della sua uscita questo lungometraggio fu presentato come un horror, lasciando interdette molte persone: in realtà si tratta di un’opera piuttosto complessa e stratificata, dove la metafora dell’isolamento diventa la chiave di volta per esorcizzare la paura del mondo esterno. Un thriller profondamente psicologico dunque, ma anche un mystery movie in cui sono proiettati tutti i dolori dell’America post undici settembre, una nazione che ancora oggi tende a innalzare muri per proteggere i confini invece di metabolizzare a viso aperto le proprie ferite ereditate dalla storia.
I protagonisti del film vivono in un villaggio immerso nella foresta, un luogo circoscritto da cui non bisogna assolutamente uscire, poiché il bosco attiguo è infestato da creature mostruose che non si possono neppure nominare. Ma c’è un patto di non belligeranza tra questa comunità e tali creature, un accordo che tuttavia è destinato a essere violato. Solo così può venire a galla il segreto che ha dato origine al villaggio, un twist tipicamente shyamalaniano destinato a stravolgere l’idea originaria della pellicola.
“The Village” può contare su una splendida fotografia dai colori autunnali (giallo, verde, marrone) e su una regia senza dubbio di spessore, due fattori fondamentali che sopperiscono a una sceneggiatura destinata a perdere colpi durante la seconda parte del film, al di là delle solite forzature che nel cinema di Shyamalan sono da prendere o da lasciare senza mezzi termini. Il cast è buono, anche se funzionano molto meglio Bryce Dallas Howard (nei panni della cieca Ivy) e Adrien Brody (Noah, il matto del villaggio) rispetto alle prove meno entusiasmanti di Sigourney Weaver (Alice) e Joaquin Phoenix (Lucius). Nel complesso, gli aspetti positivi superano di gran lunga quelli negativi, però si sente eccome che l’acceleratore non è spinto fino al massimo. La sensazione di assedio suggerita nei primi minuti dell’opera è infatti fin troppo blanda per suggestionarci a dovere: un peccato, considerando che la paura insita nella comunità è delineata con la giusta enfasi, al contrario delle presunte mostruosità provenienti dal mondo esterno, accennate con poca convinzione e dunque incapaci di generare inquietudine una volta varcato quel confine. Se però “The Village” ha lasciato buoni ricordi dopo tutti questi anni, i motivi non sono pochi, ecco perché in confronto alle recenti débâcle di Shyamalan, questo è ancora un signor film, la cui estetica folkloristica ha persino dato qualche spunto a un certo Ari Aster per il suo “Midsommar” (2019).

(Paolo Chemnitz)

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