
di David Cronenberg (Stati Uniti/Canada, 1983)
“La Zona Morta” è stata una grande scommessa per David Cronenberg, soprattutto in tempi di body horror e di una costante scalata verso l’alto (il capolavoro “Videodrome” esce anch’esso nel 1983). In effetti era praticamente impossibile migliorare o comunque eguagliare i livelli raggiunti dall’omonimo romanzo pubblicato quattro anni prima da Stephen King (“The Dead Zone”, per essere precisi), un libro ancora oggi considerato tra i più influenti e riusciti nell’intera carriera dello scrittore americano.
Anche se il potere della mente è l’elemento chiave del film, qui ci troviamo in territori ben diversi da quelli già toccati da Cronenberg con “Scanners” (1981), un lungometraggio dove la matrice horror-splatter si rivelava inscindibile dalle dinamiche di natura concettuale (fantapolitica e non solo). “La Zona Morta” rinuncia invece al sangue per fare spazio a un’immersione totale nel thriller psicologico, dove la mutazione del corpo viene sostituita da un silente cambiamento interiore, quello del protagonista Johnny Smith (nella pellicola viene mantenuta questa denominazione piuttosto anonima, perché Smith incarna l’uomo comune messo davanti alle decisioni più dolorose). Un eccelso Christopher Walken interpreta questo magnifico personaggio, un individuo di mezza età finito in coma dopo un terribile incidente stradale: al suo risveglio, Johnny scopre di possedere un potere alquanto singolare, ovvero quello di poter predire il futuro delle persone con le quali entra in contatto fisico. Un prezioso dono ma anche una maledizione (come ammette egli stesso), perché se da una parte questa facoltà gli permette di svelare l’identità di un pericoloso serial killer, c’è pure un lato oscuro che non tarda a salire a galla, quello legato alle sorti di un’intera nazione.
Senza dubbio David Cronenberg ha vinto questa scommessa, seppur con qualche difficoltà: non a caso si sente non poco la mancanza di una sua sceneggiatura, della sua mano che spinge in avanti la storia facendola crescere e debordare minuto dopo minuto. Lo script, idealmente affidato proprio a King, finì invece sul tavolo di Jeffrey Boam, bravo nel saper condensare gli eventi del libro (senza divagare eccessivamente sui particolari secondari) ma allo stesso tempo incapace di infondere continuità alle vicende, motivo per il quale “La Zona Morta” è un film che funziona più nei singoli episodi che nella sua tenuta complessiva. Tuttavia, nonostante questa inevitabile frammentazione, il regista canadese riesce a tirare fuori un finale di grandissimo impatto, mantenendo sempre inalterata una certa sobrietà di fondo (che non bisogna leggere affatto come mancanza di personalità). Perché il tocco di Cronenberg si può saggiare scena dopo scena, attraverso degli eventi infausti che riflettono l’angoscia esistenziale del protagonista, un uomo immerso nel cuore di uno scenario cupo, inquietante e (non poteva essere altrimenti) invernale. Sotto questo punto di vista, il cinema di Cronenberg non perde di un grammo le sue potenzialità.
Se durante gli anni ottanta le trasposizioni di King non hanno sempre avuto un esito felice, “La Zona Morta” è tra quelle che al contrario tirano fuori i denti mostrando tutto il loro valore: questo ovviamente non è il capolavoro di Cronenberg, ma il risultato complessivo è ancora più gratificante proprio alla luce della difficoltà iniziali presenti nell’operazione. Dopotutto Cronenberg qui gioca palesemente fuori casa, davanti a un passato (il romanzo di King) impossibile da superare a prescindere.

(Paolo Chemnitz)
