Purgatoryo

di Roderick Cabrido (Filippine, 2016)

L’obitorio come un purgatorio, perché in attesa del loro funerale (dunque la via per il paradiso) questi cadaveri finiscono lì dentro, stesi all’interno di una vasca o sopra un tavolo di acciaio. Un’atmosfera gelida, illuminata sporadicamente da luci fredde e bluastre. Se per i defunti questo luogo rappresenta soltanto un transito per chissà dove, per i vivi è un vero inferno, un abisso dove non c’è posto per alcuna morale.
Violet è un avido travestito che gestisce un obitorio in un lurido distretto di Manila: accanto a questo ripugnante individuo lavorano due giovani inservienti piuttosto scazzati, Dyograd e On-On, uno fissato col gioco d’azzardo e l’altro con il sesso. Nella morgue di Violet c’è anche spazio per un traffico illecito di cadaveri in cui è invischiato un poliziotto corrotto, giusto per non farsi mancare nulla. La corda però, una volta tirata, è destinata a spezzarsi.
Il regista Roderick Cabrido sceglie la strada del realismo, cavalcando quella linea di continuità già tracciata in passato da Lino Brocka e poi successivamente da Brillante Mendoza: un cinema duro e crudo che dunque non ci risparmia nulla, perché ancora una volta l’indagine è rivolta verso i bassifondi della società filippina. Dove più che vivere, bisogna sopravvivere. Ecco perché in “Purgatoryo” la morte (altrui) diventa un mezzo per arricchirsi nel modo più losco possibile, mentre il vizio dilaga sia dentro quelle stanze che nelle strade attigue all’obitorio. I corpi sono privati della loro dignità, carcasse da buttare via o nella peggiore delle ipotesi, da sfruttare per dare sfogo ai propri impulsi sessuali (la necrofilia ci viene sbattuta in faccia senza alcun filtro, proprio per farci toccare con mano la squallida quotidianità di questi personaggi).
Nonostante un epilogo un po’ tirato per i capelli e al di là di una storia abbastanza frammentata (le singole scene funzionano bene, ma si avverte la mancanza di una coesione generale), “Purgatoryo” è un film che non delude affatto le aspettative, ponendosi quasi come una risposta lugubre/funebre al conterraneo “Serbis” (2008) di Brillante Mendoza, quest’ultimo interamente girato dentro un cinema a luci rosse. È un dato di fatto: se parliamo di estremo oriente, la scuola registica filippina è quella che da tempo possiede gli strumenti antropologici più adatti per raccontare la realtà, una sensibilità che riesce a scavare nel profondo aggirando qualsiasi tipo di paletto. Solo così è possibile sondare questo angolo di universo sempre più cupo, dove si arranca tra mille espedienti e un pizzico di malsana perversione.

(Paolo Chemnitz)

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