Shorta

di Frederik Louis Hviid e Anders Ølholm (Danimarca, 2020)

Fu grazie a un regista all’epoca sconosciuto come Nicolas Winding Refn che il filone crime danese cominciò a far parlare di sé al di fuori dei confini nazionali. Era infatti il 1996 quando Refn realizzò il primo grezzo capitolo di “Pusher”, un esordio importante per una trilogia di successo poi culminata con il conclusivo “Pusher 3 – L’Angelo Della Morte” del 2005. Questa tradizione prosegue senza sosta ancora oggi, ecco perché dopo una lunga serie di cortometraggi, Frederik Louis Hviid e Anders Ølholm hanno sentito il bisogno di confrontarsi con il cinema crime vero e proprio, quello che guarda anche sul versante francese (se “L’Odio” viene omaggiato da una scritta sul muro, a tornare in mente è soprattutto il recente “Les Misérables”).
Jens e Mike sono due poliziotti caratterialmente molto diversi: il primo è di indole tranquilla e svolge il proprio dovere con passione e dedizione, mentre il secondo è la classica testa calda che si sente invincibile solo perché indossa una divisa. Un razzista bifolco poco incline al dialogo. Mentre i due sono di pattuglia nel quartiere ghetto di Svalegården (un Bronx danese inventato di sana pianta), giunge via radio la notizia di un nero che ha perso la vita mentre era in custodia presso la centrale di polizia. Siamo dalle parti del caso George Floyd, una bella coincidenza considerando che i registi hanno scritto la sceneggiatura poco prima di quel tragico episodio di cronaca avvenuto in terra americana. Svalegården diventa dunque una trappola per i due poliziotti, bloccati in quel ghetto (con un ragazzino in manette al seguito) e costretti ad affrontare la rabbia degli immigrati sconvolti da quella notizia.
“Shorta” (termine arabo con il quale viene identificata la polizia) è un film molto attuale, poiché al di là degli aspetti di pura fantasia, a essere rievocate sono le tensioni razziali che negli ultimi anni stanno dilagando nei paesi del nord Europa (in Svezia, soprattutto). Un fallimento del multiculturalismo oppure un segnale di speranza per il futuro? Sotto questo punto di vista, i due registi mantengono il giusto equilibrio, ponendo davanti all’azione vera e propria le dinamiche psicologiche dei protagonisti (lo scontro caratteriale tra i colleghi poliziotti aggiunge molto sale alla storia). Tuttavia è il ruolo delle istituzioni a lasciare sgomenti, non solo per la morte misteriosa di quell’uomo recluso in centrale, ma anche per i metodi stessi di Mike, un duro le cui prepotenze scatenano un terribile quanto inevitabile effetto domino nella comunità del quartiere.
Se chiudiamo un occhio sul classico stereotipo che verte sulla complementarità dei due personaggi principali, “Shorta” è un crime movie che si lascia guardare senza particolari affanni, nonostante un minutaggio fin troppo eccessivo (tagliare una ventina di minuti sarebbe stato un compromesso ideale per mantenere sempre alto il ritmo). Al termine della visione, le riflessioni forse trovano maggiore spazio rispetto all’intrattenimento, ma se l’obiettivo dei registi era quello di farci pensare, bisogna dargli atto che il bersaglio è stato colpito con discreti risultati. Ecco perché “Shorta” merita senza dubbio una possibilità.

(Paolo Chemnitz)

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