Daisy Diamond

di Simon Staho (Danimarca, 2007)

I due film più conosciuti e apprezzati del danese Simon Staho hanno in comune più di un tragico elemento: la morte, la rinuncia, il fallimento, l’incomunicabilità, l’autoflagellazione. Se “Day And Night” (2004) è uno straziante conto alla rovescia in cui viene rivelato subito l’epilogo, “Daisy Diamond” ne è quasi la sua parte complementare, perché qui la caparbietà e le speranze di una donna sembrano poter migliorare una quotidianità ad ogni modo già complicata in partenza.
Ce la mette tutta la giovane Anna (una marmorea nonché ottima Noomi Rapace, nel film spesso mostrata senza veli), attrice svedese trasferitasi a Copenhagen in cerca di lavoro e allo stesso tempo ragazza-madre di una neonata chiamata Daisy: le sue audizioni purtroppo non riescono mai a convincere, nonostante Anna sia disposta a tutto pur di entrare nel cast di qualche produzione, un accumulo di frustrazioni che si sommano alle ore infernali trascorse insieme a quella bimba (di cui ascoltiamo il pianto ininterrotto). Quando la protagonista comincia a pensare che la colpa di questa situazione sia riconducibile proprio alla piccola Daisy, accade qualcosa di irreparabile, una scena shock che apre le porte a una seconda parte del film completamente segnata dall’autodistruzione.
“Daisy Diamond” è un film snervante e sgradevole, in cui l’amore materno viene letteralmente travolto da un caos esistenziale privo di uscite. Dopotutto se sei appena nata, non hai il diritto di lamentarti, poiché il dolore lo si prova soltanto da adulti: ecco perché Anna fa ricadere su Daisy tutte le colpe dei suoi fallimenti, per poi vivere nel rimorso fino all’inesorabile (e scontato) epilogo. Tutto questo ci viene raccontato attraverso una freddezza formale quasi al limite dell’insostenibile, è difficile infatti empatizzare con la severa figura della protagonista, una donna annientata dalle sue stesse ambizioni (quella di essere madre e quella di voler diventare attrice).
Simon Staho lancia il sasso ma non nasconde affatto la mano: il suo “Daisy Diamond”, pur muovendosi all’interno di un approccio metacinematografico, fa in modo che realtà e finzione coincidano fino alle più estreme conseguenze, elevando al quadrato la potenza stessa di un messaggio che mette davvero i brividi. Una pellicola dunque cinica e infame, da non perdere se siete degli assidui frequentatori del circuito disturbing drama e del fastidiosissimo cinema danese contemporaneo. Per chi non si scandalizza facilmente.

(Paolo Chemnitz)

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