
di Fritz Kiersch (Stati Uniti, 1984)
“Grano Rosso Sangue” (“Children Of The Corn”) è uno dei tanti film basati su qualche racconto o romanzo di Stephen King (in questo caso la storia è contenuta nella raccolta “A Volte Ritornano”, uscita originariamente nel 1978). Si tratta senza dubbio di una trasposizione di successo, nonostante Stephen King fu estromesso dalla sceneggiatura per fare spazio allo script di George Goldsmith, il cui sviluppo segue un approccio ben diverso da quello del libro. Polemiche a parte, questa pellicola ha dato vita a una lunga e trascurabile saga composta da ben nove sequel, molti dei quali usciti soltanto in edizione home video.
L’incipit è notevole, il sangue schizza che è un piacere e facciamo subito conoscenza di questi spietati ragazzini che vivono in un luogo remoto del Nebraska, dove il paesaggio rurale non cambia mai (grano, grano, grano e ancora grano). In una di queste strade che si perdono all’orizzonte, una coppia in automobile investe accidentalmente un giovane: i due così, per avvisare dell’accaduto le autorità competenti, finiscono nella località fantasma di Gatlin, un luogo dove tutti gli adulti sono stati assassinati in nome di una divinità pagana chiamata colui che cammina tra il grano (ancora meglio he who walks behind the rows).
Senza scomodare le derive sci-fi de “Il Villaggio Dei Dannati” (1960), l’idea di una comunità guidata da sadici adolescenti era stata già vista in precedenza con risultati a dir poco eccellenti (“Ma Come Si Può Uccidere Un Bambino?” è del 1976). In quel caso però il silenzio inquietante dei protagonisti era un espediente che metteva davvero a disagio: con “Grano Rosso Sangue” c’è invece da dire che questi ragazzini parlano troppo, sono antipatici da far schifo e soltanto uno di loro riesce a trasmetterci qualche sensazione realmente cupa (Isaac è interpretato da John Franklin, attore all’epoca ventiquattrenne ma rimasto piccino per una rara deficienza ormonale).
Anche se il plot scopre le carte fin da subito, il regista Fritz Kiersch riesce a tenere ben salda la narrazione, regalandoci una prima parte decisamente coinvolgente in cui veniamo sommersi da quelle inconfondibili atmosfere di matrice folk-horror (questo al di là di una fotografia davvero scialba). Successivamente, “Grano Rosso Sangue” ha varie cadute di tono, legate sia agli effetti speciali che a qualche trovata veramente trash, come quella della croce sparata in aria (evitabilissima). Nonostante ciò, questo è un film che molti appassionati ricordano sempre con immenso piacere (i Testament scrissero il brano “Disciples Of The Watch” ispirandosi alla pellicola), in effetti si può chiudere un occhio sui difetti di cui sopra poiché alla resa dei conti la visione si rivela piuttosto godibile.
Non possiamo immaginare cosa sarebbe accaduto se la sceneggiatura di Stephen King avesse avuto il benestare della produzione: sicuramente il finale sarebbe stato migliore (e non solo), tuttavia il lavoro di Goldsmith non è affatto da disprezzare, anche alla luce di alcune dichiarazioni in merito sul suo operato. Egli infatti affermò che molte idee messe sul piatto non erano altro che una metafora dell’integralismo religioso (il cui spunto era stato preso dalla rivoluzione iraniana di pochi anni precedente). Come al solito, dietro ogni pellicola ci sono tanti curiosi aneddoti da raccontare, forse anche per questo motivo non è difficile affezionarsi al primo capitolo di “Grano Rosso Sangue”, un film la cui essenza è senz’altro ricca di spunti tutti da scoprire.

(Paolo Chemnitz)
