
di Joseph P. Mawra (Stati Uniti, 1965)
Nel lontano 1964, tre attivisti del movimento per i diritti civili dei neri vennero uccisi a colpi di pistola da un gruppo di affiliati al Ku Klux Klan, con la complicità dello sceriffo della contea. Il fatto avvenne in una piccola località del Mississippi, dove i tre giovani si erano recati allo scopo di convincere i membri della comunità afroamericana ad iscriversi ai registri elettorali. I corpi delle vittime furono ritrovati solo quarantaquattro giorni dopo la sparizione, sepolti in un terrapieno nei pressi del luogo dell’omicidio.
Trascorre soltanto un anno e il misterioso regista exploitation Joseph P. Mawra, già reduce da una serie di pellicole molto controverse (tra cui ricordiamo “Olga’s House Of Shame” e “Chained Girls”), coglie la palla al balzo dirigendo un dramma incentrato su questa brutta vicenda ambientata nel profondo sud degli Stati Uniti. Un’opera molto scarna e girata alla meno peggio, dove la denuncia sociale viene spesso messa in secondo piano dagli aspetti puramente exploitation (inclusa una scena di evirazione, niente male per l’epoca!). Se dunque alla base del film c’è un evento realmente accaduto, Mawra lascia sfogare il suo istinto da cinema grindhouse, aggiungendo del sale a piacere anche quando non richiesto.
Le atmosfere sudiste di “Murder In Mississippi” non sono poi così distanti da quelle contemporanee del primo Russ Meyer, pensiamo a titoli come “Lorna” (1964) o “Mudhoney” (1965), con la differenza che Mawra qui tende a prendersi troppo sul serio, scadendo inconsapevolmente in qualche passaggio al limite del ridicolo.
Sullo stesso tema, le opere da apprezzare sono sicuramente altre (non può che tornare in mente “Mississippi Burning” di Alan Parker), tuttavia questo breve e indolore prodotto realizzato nel cuore dei 60s ha una sua importanza storica da non sottovalutare, proprio per via dell’argomento sempre caldo del razzismo e dei diritti negati agli afroamericani. Se oggi tutti ne parlano (soprattutto a Hollywood), un tempo solo in pochi avevano il coraggio di affrontare a viso aperto questi tragici aspetti della cronaca quotidiana, seppur con un approccio esteticamente povero e molto meno profondo dal punto di vista dei contenuti.

(Paolo Chemnitz)
