
di Lee Su-Jin (Corea del Sud, 2013)
Una delle tematiche cinematografiche più scottanti e dolorose è quella legata agli abusi sessuali, un orrore che può essere messo in scena in mille modi diversi. In Corea del Sud la finzione ha spesso trovato terreno fertile nel revenge movie, come per esempio abbiamo visto nel devastante “Bedevilled” (2010). Ma se alla base di tutto c’è una storia realmente accaduta, il discorso può drasticamente cambiare, virando da un approccio di matrice thriller a uno puramente drammatico (in cui gli aspetti psicologici della vittima diventano di primaria importanza).
“Han Gong-Ju” è una pellicola ispirata a un episodio di cronaca nera avvenuto in Corea nel 2004, il famigerato Miryang middle school girls rape incident. Per oltre undici mesi, una quarantina di giovani liceali abusarono di alcune ragazze del loro istituto, ricattandole nel caso avessero raccontato tutto alla polizia: l’indagine scatenò una serie di polemiche, in quanto agli stupratori fu concesso un trattamento indulgente mentre le vittime ebbero ben poca comprensione. Ma questa non è una novità, non a caso il cinema coreano è sempre stato molto duro nei confronti delle istituzioni, in particolare della polizia.
Il regista Lee Su-Jin si sofferma soltanto su un personaggio, dedicando sia il titolo del film che la locandina alla timida Han Gong-Ju (molto convincente la prova di Chun Woo-Hee), una studentessa appena trasferitasi in una nuova scuola. La giovane vive momentaneamente nella casa di una signora di mezza età, con la quale ha un rapporto inizialmente complicato: Han parla raramente e non ha più fiducia nei confronti del genere umano, perché quelle ferite sono ancora aperte e mai più potranno essere rimarginate. Gli eventi, come è facile intuire, si focalizzano soprattutto sull’elaborazione del trauma da parte della studentessa, un viaggio nei meandri di una mente ormai terrorizzata da qualsiasi interazione con il prossimo. Solo attraverso i continui (ed eccessivi) flashback è possibile ricostruire il passato di Han Gong-Ju, una ragazza smarrita e indifesa purtroppo abbandonata anche dalla sua famiglia.
Trattandosi di una storia vera, la pellicola invece di optare per il riscatto sociale o per un’ipotetica vendetta, affonda il coltello sempre più giù, arrivando a toccare dei momenti di pura disperazione esistenziale tutt’altro che consolatoria. Sotto questo punto di vista, Lee Su-Jin indovina quasi ogni mossa, nonostante una struttura narrativa estremamente appesantita dai flashback di cui sopra, il cui ruolo decisivo finisce per ritorcersi sulla fruizione stessa del film (a tratti lento e inesorabilmente segmentato). Peccato dunque doversi accontentare di un potenziale espresso soltanto in parte: smussando queste spigolature, il regista ci avrebbe potuto regalare l’ennesimo importante prodotto sudcoreano, mentre a fine visione quel che resta sul piatto è solo un lavoro tanto interessante quanto acerbo nel suo svolgimento. Comunque nel complesso più che sufficiente per attirare le nostre attenzioni.

(Paolo Chemnitz)
