Blind Spot

di Tuva Novotny (Norvegia, 2018)

Partendo da un titolo di grande rilevanza internazionale come “Arca Russa” (2002) di Aleksandr Sokurov, possiamo appurare che durante il nuovo secolo i film girati con un solo lunghissimo piano sequenza sono aumentati in maniera esponenziale (le tecniche di ripresa seguono di pari passo lo sviluppo della tecnologia video). Tra i lavori più intriganti e riusciti, citiamo pellicole più underground come ad esempio il colombiano “PVC-1” (2007), il funambolico e incredibile “Victoria” (2015) o il recente “Utøya 22. Juli” (2018), opera quest’ultima di produzione norvegese.  
Con “Blind Spot” (“Blindsone”) restiamo sempre in Norvegia, spostandoci però nella periferia della capitale Oslo, esattamente all’interno di una palestra dove sta per terminare un allenamento di pallamano femminile. La macchina da presa segue la giovane Tea (in compagnia di un’amica) nel suo percorso a piedi fino a casa, una partenza che non lascia presagire nulla di strano nei comportamenti della protagonista. La svolta shock è però dietro l’angolo e non possiamo spingerci oltre nel raccontare quello che accade all’improvviso, quando i familiari della ragazzina si ritrovano ad affrontare i minuti più angoscianti della loro esistenza. La stessa ansia che viviamo noi, in tempo reale e con un realismo a dir poco disarmante.
La regista svedese (di padre ceco) Tuva Novotny sceglie la strada dell’intensità, puntandoci un coltello alla gola per almeno un’ora di visione, quando l’ossigeno comincia a scarseggiare anche davanti al nostro schermo. Momenti esasperati che non concedono tregua e durante i quali emergono dei particolari inquietanti sul passato di questa giovane adolescente: “Blind Spot” è infatti un film che ci parla di traumi non superati, di un dolore mai scacciato e forse mai completamente compreso sia dalla famiglia che dalle istituzioni competenti. Un bambino è fragile e vulnerabile, come è stato possibile dunque accostare il termine normalità a uno stato mentale probabilmente compromesso per sempre? Alla risposta ci arriviamo noi, quando ormai la pellicola ha già detto tutto (le ultime immagini paradossalmente sono le più serene dell’intero lavoro). 
Da segnalare ancora un’ottima fotografia e alcune interpretazioni di buon livello (non tutte però), anche se la scena viene completamente rubata da Maria (una straziante Pia Tjelta), un personaggio il cui affanno disperato penetra fin sotto la pelle. Per apprezzare al meglio un’opera di questo genere, è comunque fondamentale entrare nel mood fin da subito: questo è un cinema puramente emozionale da approcciare con la massima empatia, pena un distacco che potrebbe risultare deleterio nella fruizione stessa della pellicola. Forse c’è del sano masochismo tra queste parole, ma “Blind Spot” va vissuto in apnea dall’inizio alla fine. Un’esperienza lacerante.

(Paolo Chemnitz)

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