Lourdes

di Jessica Hausner (Austria/Francia/Germania, 2009)

Per un appassionato di cinema, è quasi impossibile rimuovere dagli occhi quei grandi manifesti pubblicitari che nel 2009 accompagnarono l’uscita di “Lourdes” nelle sale italiane. Quello che in apparenza sembrava un film di pura propaganda religiosa, si rivelò invece un prodotto intelligente raccontato da uno sguardo freddo e distaccato, nella migliore tradizione austriaca del nuovo millennio. Anche se Jessica Hausner non possiede le stesse qualità di Michael Haneke o l’ironia tagliente di Ulrich Seidl, qui ha percorso una scia estetico-tematica molto simile a quella dei suoi più illustri colleghi, raggiungendo l’obiettivo senza grandi affanni.
Se la cittadina di Lourdes è diventata il secondo polo turistico della Francia dopo Parigi, il motivo lo conoscete tutti: ci si reca da queste parti per partecipare al pellegrinaggio nella celebre grotta (oggi santuario), dove nel diciannovesimo secolo una contadina di nome Bernadette vide più volte la Madonna. Si parte fiduciosi, con la speranza di guarire da qualche malanno. La macchina da presa segue da vicino un viaggio organizzato in cui tra i vari personaggi spicca la figura di Christine (una bravissima Sylvie Testud), malata di sclerosi multipla e da anni condannata sulla sedia a rotelle. In questa marea umana di suore, di preti e di infermi a caccia di un miracolo, Jessica Hausner ci racconta la giornata tipo di questi individui, tra preghiere, celebrazioni e pranzi di routine, fino alla tappa più ambita, la grotta delle apparizioni mariane. Quando però Christine si alza e inizia a muovere qualche passo, nel suo gruppo montano le invidie e le gelosie, anche perché ci si chiede come mai la Madonna abbia scelto proprio lei, una donna sicuramente lontana dalla fede più incrollabile.
Nonostante “Lourdes” abbia ottenuto il plauso da alcuni ambienti prettamente cattolici, l’interpretazione dell’opera premia senza dubbio la visione atea e disincantata della regista. Esaminando la pellicola passo dopo passo, emerge tutta quella crudeltà insita nel destino dell’essere umano: se è vero che Christine cammina timidamente, allo stesso tempo la severa capo-infermiera della comitiva (Cécile) ha un malore che la porta in fin di vita, come se qualcuno dall’alto giocasse in maniera beffarda con la nostra esistenza. Il fato, probabilmente. A Lourdes inoltre non traspare affatto l’amore cristiano tanto decantato dai paladini della fede, non a caso l’aspetto religioso qui è trattato in maniera molto superficiale dagli stessi protagonisti, tutti risucchiati dalla macchina burocratico-economica di questa grande attrazione turistica. Il cinema della frustrazione è dunque servito, poiché la speranza, prendendo in prestito le parole del grande Emil Cioran, altro non è che la forma normale del delirio.
Il momento più alto di “Lourdes” è rappresentato dal finale, un epilogo pregno di squallore sulle note di “Felicità” di Al Bano e Romina Power: in questi ultimi fotogrammi assistiamo alla fusione tra sarcasmo e amarezza, una formula che si proietta istintivamente su quelle coppie che si sono appena formate per ballare in pista. Qui il presunto miracolo di Christine comincia a perdere colpi, mentre affiora più forte di prima tutta la pochezza umana di questi gitanti della fede che sognano l’impossibile.  

(Paolo Chemnitz)

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