Yakuza’s Law

di Teruo Ishii (Giappone, 1969)

Che i mafia movies possano essere ultraviolenti non è affatto una novità, nessuno però si sarebbe potuto immaginare un film così estremo girato nel lontano 1969. A metterci la faccia è ovviamente Teruo Ishii, regista già noto in quel periodo per le sue pellicole appartenenti al filone ero guro (nel suo caso, torture a non finire condite da elementi sia erotici che bizzarri).
“Yakuza’s Law” (il titolo originale è “Yakuza Keibatsu-Shi: Rinchi!”) devia in parte da questo percorso, spostandosi prevalentemente in territori action, con tre segmenti (ancora una volta Ishii predilige il film a episodi) ognuno dei quali ambientato in una determinata epoca storica del Giappone: nel frammento iniziale ci troviamo nel periodo Edo (due secoli e mezzo che partono nel 1603 e si esauriscono verso la metà del diciannovesimo secolo), per poi passare all’era Taishō (1912-1926) e atterrando infine nel presente (la fase Shōwa si è conclusa nel 1989).
Mettiamoci subito l’anima in pace, poiché qui la flebile trama è soltanto un pretesto per mostrare un campionario allucinante di esecuzioni, di linciaggi, di violenza gratuita e quant’altro, roba da far impallidire persino qualche boss mafioso di italica provenienza. Dopotutto con la yakuza non si scherza, pena una punizione tra le più orribili e severe (quando sopraggiunge la morte, per la vittima diventa quasi una liberazione). Ecco che allora vediamo avvicendarsi sullo schermo dita mozzate, deorbitazioni, gente ustionata o marchiata con il fuoco e poi ancora, in epoca recente, un povero malcapitato appeso con una corda a un elicottero e sbattuto al suolo come una bestia da macello. C’è anche una sequenza in cui assistiamo al taglio di un orecchio, ma in questo caso Teruo Ishii è arrivato in ritardo, visto che tre anni prima il nostro Sergio Corbucci ci aveva già deliziati con delle immagini simili nel suo “Django” (1966).
C’è poco da aggiungere, “Yakuza’s Law” è una pellicola consigliata soltanto agli amanti del gore e del cinema exploitation più ferale, anche perché qui una presunta analisi storico-sociale del fenomeno yakuza diventa quasi una barzelletta davanti a tanto becero sadismo. Tuttavia restano da sottolineare gli effetti truculenti (la cui resa è buona, nonostante sia soltanto il 1969) e le discrete coreografie nelle scene dei combattimenti, merito di un onesto artigiano come Ishii, un regista sempre efficace nei suoi intenti shock ma allo stesso tempo molto meno a suo agio quando si trattava di scrivere una sceneggiatura.

(Paolo Chemnitz)

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