
di Louis Malle (Francia, 1963)
Nel 1931 esce la prima edizione di “Fuoco Fatuo” (“Le Feu Follet”), un romanzo breve di Pierre Drieu La Rochelle ispirato al suicidio del suo amico scrittore Jacques Rigaut, avvenuto poco tempo addietro. Lo stesso autore del libro si toglierà la vita nel 1945. Sono almeno due le pellicole basate su queste pagine: la prima è un film omonimo diretto da Louis Malle nel 1963, mentre la seconda è un’opera (sempre molto valida) del norvegese Joachim Trier (“Oslo, August 31st”), uscita nel 2011.
Oggi ci soffermiamo su questa magnifica testimonianza del cinema esistenzialista, un lungometraggio per l’epoca decisamente coraggioso, considerando che nel 1963 trattare la tematica del suicidio non era affatto semplice. Louis Malle lascia spazio alla figura di Alain Leroy, un individuo sulla quarantina che cerca un ultimo disperato appiglio per dare un senso alla sua vita. Una volta abbandonata la clinica dove l’uomo si è disintossicato dall’alcol, Alain si reca a Parigi a caccia dei suoi vecchi amici: qui però deve scontrarsi con un mondo che non gli appartiene più, perché quei borghesi sono scesi a compromessi per andare avanti e per lui provano soltanto disprezzo o compassione. Alain si sente come un oggetto estraneo tra quelle strade affollate, è in preda a quella stessa nausea che affliggeva il protagonista nel celebre libro di Jean-Paul Sartre. Solo un gesto estremo può liberarlo dal dolore, da un’angoscia latente che altro non è che un mal di vivere privo di speranza.

In “Fuoco Fatuo” lo sviluppo narrativo prende le distanze dalla discontinuità tipica della nouvelle vague, Malle infatti segue un modello classico dove la trama (molto lineare) passa tuttavia in secondo piano davanti all’argomento filosofico portante: siamo dunque stimolati di continuo dalla moltitudine di domande che ci vengono poste durante la visione del film, perché i dialoghi-monologhi di “Fuoco Fatuo” sono pregni di una tragica intensità, dove ogni parola pesa come un macigno. Riflessioni che colpiscono direttamente al cuore, lasciando emergere quella drammatica consapevolezza che solo alcuni adulti raggiungono dopo essersi lasciati alle spalle gli anni della spensieratezza (“I left my youth for another life”). La dedica, se così possiamo chiamarla, è per quelle persone che hanno rifiutato i dogmi culturali imposti dalla società.
Premiato a Venezia nel 1963 con il Leone d’Argento, “Fuoco Fatuo” è un film che ancora oggi ci mostra le sue ferite ancora aperte: il volto del dandy Maurice Ronet non si dimentica facilmente, così come le note di piano di Erik Satie, sempre strazianti nella loro intramontabile bellezza poetica. Questa è un’opera sulla disperazione, fin dalla sua prima inquadratura, uno sguardo d’autore genuinamente antiborghese e privo di inutili divagazioni su uno dei temi più complessi che da sempre affliggono il pensiero umano. Il (non) senso dell’esistenza.

(Paolo Chemnitz)
