Audrey Rose

di Robert Wise (Stati Uniti, 1977) 

Quello di “Audrey Rose” è un Robert Wise ormai agli sgoccioli, nonostante il colpo di coda di “Star Trek” di due anni successivo, un film costoso e ambizioso che tanto piacque al pubblico dell’epoca (molto meno alla critica). Alla base di “Audrey Rose” c’è invece un errore di fondo, in quanto l’opera fu pubblicizzata come un horror a sfondo religioso, quando al contrario si tratta di un dramma psicologico per certi versi davvero angosciante, almeno nella prima parte.
Nel lontano 1965, una donna al volante viene coinvolta in un terribile scontro frontale, dove con lei perde la vita anche la piccola figlia Audrey. Elliot Hoover (Anthony Hopkins), il padre di quella bambina, dopo tanti anni di ricerca in India e in America a contatto con sensitivi ed esperti del settore, si convince che Audrey si è reincarnata in una bimba di nome Ivy Templeton, cominciandola a pedinare all’uscita della scuola per le strade di New York. Quando il protagonista riesce a mettersi in contatto con la famiglia della ragazzina, iniziano ad accadere dei fatti inquietanti che coinvolgono proprio Ivy: solo in questo caso possiamo scomodare alcune suggestioni già viste ne “L’Esorcista” (1973), un fuoco di paglia considerando che il film, durante gli ultimi cinquanta minuti, tende a perdersi tra beghe legali dentro l’aula di un tribunale e spiegazioni più o meno attendibili sul fenomeno della reincarnazione.
Al di là di un soggetto non proprio originale, il potenziale di “Audrey Rose” viene gettato alle ortiche dopo una prima ora alquanto promettente, soprattutto alla luce del burrascoso rapporto tra Elliot e i genitori di Ivy, scettici riguardo i racconti dell’uomo e ovviamente gelosi delle attenzioni da lui riservate nei confronti della propria figlia. Invece di insistere sulla tensione psicologica e sulle crisi isteriche che coinvolgono la piccola (alcune scene sono davvero raggelanti), Robert Wise rinuncia alla continuità concentrandosi sull’aspetto dottrinale delle vicende, quasi a voler avvalorare l’esistenza reale di questo fenomeno.  
Tuttavia, bisogna tenere conto dell’omonimo libro da cui sono stati tratti gli eventi, un romanzo pubblicato da Frank De Felitta nel 1975: siccome egli stesso ha curato la sceneggiatura del film, diventa logico pensare a un adattamento meno nelle corde del regista americano, al contrario in passato già capace di trasformare in oro alcune opere letterarie (pensiamo al cult “Gli Invasati”). “Audrey Rose” resta comunque una pellicola triste, cupa e tutt’altro che consolatoria, un dramma che avrebbe meritato uno sviluppo diverso per fare breccia nel cuore di tanti cinefili. Purtroppo si sente che manca qualcosa.

(Paolo Chemnitz)

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