
di Tony Randel (Gran Bretagna, 1988)
Sul fatto che “Hellraiser” (1987) sia un capolavoro del cinema horror, siamo tutti d’accordo. Il problema semmai è il dopo, perché forse questa è una delle saghe i cui sequel hanno davvero fatto acqua da tutte le parti, lasciando veramente pochissimi ricordi positivi. Seguendo l’ordine cronologico delle uscite, oggi ci soffermiamo su quello che possiamo considerare l’unico degno successore della pellicola del 1987, un lavoro ben al di sopra della sufficienza. Con “Hellbound: Hellraiser II – Prigionieri Dell’Inferno” il regista Tony Randel prende il posto di Clive Barker, qui comunque impegnato nella produzione e sempre legato a doppio filo alla sua creatura letteraria: un’opera dunque ancora britannica al cento per cento, prima del fatidico spostamento verso il continente americano con una serie di pellicole probabilmente apprezzate soltanto dagli integralisti della saga (quelli a cui va bene tutto, basta che ci siano i Cenobiti).
Questo secondo capitolo si differenzia non poco dal precedente, poiché si concentra molto di più sull’aspetto metafisico delle vicende, trasportandoci in un aldilà dai contorni surreali popolato da queste affascinanti creature iconograficamente inattaccabili: tuttavia, prima di trasferirci dentro questo incubo (un inferno che sembra progettato da Escher), c’è una prima parte che si riaggancia perfettamente all’epilogo dell’opera originaria. Ritroviamo quindi Kirsty, suo malgrado ricoverata nell’ospedale psichiatrico del Dottor Channard: la ragazza è ancora sotto shock e continua a essere perseguitata dall’indicibile orrore che aveva distrutto la sua famiglia. Presto però proprio in quel luogo vengono rivelati degli oscuri segreti che aprono nuovamente il passaggio dal mondo reale a quello sanguinario dei Cenobiti.

Grazie a “Hellbound: Hellraiser II” è possibile approfondire degli aspetti del primo film lasciati volutamente in sospeso: sotto questo punto di vista, l’opera di Tony Randel ha il pregio di ricomporre a dovere un puzzle ancora pieno di inquietanti interrogativi. Tutto ciò al di là di una sceneggiatura non impeccabile, specialmente durante una seconda metà dell’opera che funziona soltanto grazie alla sua incredibile carica visionaria. Merito anche di un budget più sostanzioso, capace di deliziarci con eccellenti sequenze splatter degne del più truce horror estremo (“your suffering will be legendary, even in hell!”).
Ancora oggi i tanti cultori di Pinhead sono fermamente devoti a un lungometraggio come “Hellbound: Hellraiser II”, un sequel sadico e malato che merita di essere accostato al suo inarrivabile fratello maggiore, questo a prescindere dalla mancanza effettiva di alcune caratteristiche riscontrabili soltanto nel primo capitolo (le pulsioni sessuali, una trama meno delirante e ovviamente l’effetto novità). Nulla di compromettente però, considerando il livello ancora alto di questi novantasette minuti (sovrac)carichi di idee e di situazioni destabilizzanti. Ci si poteva benissimo fermare qui.

(Paolo Chemnitz)
