Shame

di Steve McQueen (Gran Bretagna/Canada/Stati Uniti, 2011

Il sodalizio tra il regista londinese Steve McQueen e l’attore irlandese (ma di origini tedesche) Michael Fassbender ha dato ottimi risultati, considerando una tripletta di tutto rispetto cominciata nel 2008 con “Hunger”, proseguita nel 2011 con “Shame” e culminata infine con il successo di “12 Anni Schiavo” (2013), film quest’ultimo aggiudicatosi tre premi Oscar. La bravura di McQueen sta nel saper raccontare delle storie controverse attraverso un linguaggio mai complesso ma soprattutto fruibile dal grande pubblico: a tal proposito, il caso di “Shame” è piuttosto eclatante, perché se da un lato la tematica affrontata nell’opera si presta facilmente allo scandalo o al moralismo più becero, tuttavia nessuno ha osato mettere in discussione la dura sincerità di questo affascinante lungometraggio (al di là ovviamente degli immancabili divieti ai minori).  
Michael Fassbender interpreta Brandon Sullivan, un giovane uomo d’affari a cui non sembra mancare nulla: il lavoro, i soldi ma soprattutto le donne, con le quali consuma rapporti fugaci senza alcuna implicazione sentimentale. Il sesso è un pallino fisso per il nostro protagonista, poiché tra pornografia, autoerotismo o scopate a pagamento, Brandon non fa altro che dedicare tutto il suo tempo libero a questa sfera in apparenza appagante. L’arrivo improvviso della sorella minore Sissy (Carey Mulligan) sconvolge però la sua esistenza, ora condizionata da un rapporto conflittuale con la fragilità di questa ragazza. Brandon adesso è un uomo messo a nudo di fronte a uno specchio, davanti alla sua vergogna.
Non c’è nulla di divertente nel sesso occasionale. Questo lo intuiamo fin dall’incipit, quando uno score musicale tutt’altro che confortante accompagna le azioni del nostro personaggio principale, in realtà un uomo solitario immerso nel cuore di una metropoli (New York) lividamente fotografata, una città dove il contatto umano sembra aver perso ogni significato. La chiave di lettura del film è tutta qui, perché in Brandon c’è un profondo vuoto da colmare: Steve McQueen lascia dunque parlare i silenzi, le espressioni e gli sguardi, in attesa che il sangue vivo riesca a dare una scossa all’apatia bluastra di tutti i giorni. La solitudine come condanna.
Le scene di sesso non sono affatto poche, ma nulla è lasciato allo spettacolo voyeuristico, perché da ogni rapporto emerge una smorfia di dolore, di infelicità o di inadeguatezza. Per Brandon diventa dunque inaccettabile la sofferenza dell’unica persona a cui tiene per davvero, la sorella. Quello visto in “Shame” è un Michael Fassbender davvero impeccabile, un attore che proprio grazie a questa pellicola riuscì ad aggiudicarsi la Coppa Volpi al Festival di Venezia del 2011. Il freddo rigore con il quale il regista ci racconta questa storia di sex-addiction non è altro che uno strumento per atterrare altrove, in un luogo della mente dove la disperazione detta le regole del gioco. Almeno fino alle ultime immagini liberatorie, quando le avide tentazioni di Brandon forse hanno perso la morbosità di un tempo.

(Paolo Chemnitz)

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