Something Better To Come

di Hanna Polak (Danimarca/Polonia, 2014)

Hanna Polak i reietti li conosce bene. Se infatti nel 2005 il suo potente mediometraggio “The Children Of Leningradsky” fu candidato agli Oscar nella categoria dei documentari, è con questo “Something Better To Come” che per lei è arrivata la definitiva consacrazione su scala internazionale (con numerosi premi ricevuti in giro per il mondo). Questo lavoro è il risultato di ben quattordici anni di riprese, una trafila iniziata a cavallo tra i due secoli (quando Vladimir Putin aveva appena ottenuto il suo primo mandato da presidente russo) e terminata alla fine di un incubo, quello che vi stiamo per raccontare.
La regista polacca si è intrufolata all’interno di una comunità di sbandati che (soprav)vivono alle porte di Mosca, seguendo la crescita della giovane Yula fin da quando la ragazzina aveva dieci anni. Ci troviamo dentro la più grande discarica della metropoli (un luogo proibito chiamato Svalka), una realtà distante solo tredici miglia dal Cremlino: sullo sfondo si intravedono i palazzoni della periferia, ma tra queste baracche la vita non offre nulla oltre alla sporcizia e alla povertà. Ci si arrangia giorno dopo giorno e si sfida il freddo bevendo la vodka in attesa di un futuro migliore, perché negli occhi di Yula la fiamma della speranza brucia di continuo.
Attraverso diversi salti temporali, tocchiamo con mano le stesse tappe che hanno permesso alla protagonista di diventare una donna adulta, fino all’obiettivo insperato, quello che in qualche modo ci viene suggerito dal titolo stesso del film. Una casa dignitosa, in città. Nonostante un epilogo (finalmente) positivo, è tutto quello che vediamo prima a gettarci nello sconforto più assoluto, perché “Something Better To Come” è un documentario davvero triste e doloroso, un’esperienza talmente lontana dal nostro benessere occidentale da sembrare persino artificiosa. Invece è tutto vero, a cominciare dalla presa di coscienza di un’adolescente decisa a trasformare per sempre la propria esistenza.
Durante tutti questi anni di riprese, Hanna Polak è diventata amica di questi individui, facendo emergere delle storie di umanità difficilmente riscontrabili altrove: il rapporto di fiducia instauratosi tra la regista e i vari personaggi dell’opera ci permette così di entrare davvero a fondo nelle problematiche quotidiane di questo accampamento, un passaggio importante che segna in maniera definitiva uno dei migliori lavori realizzati di recente in ambito documentaristico. La bellezza di tante anime emarginate, tra tonnellate di rifiuti.

(Paolo Chemnitz)

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