
di Roope Olenius (Finlandia, 2017)
Il cinema finlandese, già abbastanza straniante nelle sue opere più celebrate (pensiamo ai film di Aki Kaurismäki), ribadisce quanto detto anche nei suoi titoli più underground, in questo caso ai confini dell’horror. Un approccio nel quale la drammaticità degli eventi viene sottilmente sfumata da una tagliente ironia di fondo, all’interno di un contesto spesso surreale: nel caso di “Kyrsyä” (o se volete, “Tuftland”) quest’ultima prerogativa viene però messa da parte, per fare spazio invece a un teatro del grottesco in cui l’elemento mystery sfocia presto nella tragedia.
Irina (Veera W. Vilo) sta attraversando un brutto periodo: la sua relazione sentimentale è appena finita mentre la sua quotidianità è triste e insoddisfacente, nonostante la ragazza stia studiando per diventare una sarta di professione. Con l’arrivo della bella stagione, Irina decide momentaneamente di staccare la spina, accettando un lavoretto presso una piccola comunità lontana dal mondo civilizzato. Una volta immersa tra le sconfinate foreste di Kyrsyä, la nostra protagonista si ritrova circondata da una serie di personaggi alquanto bizzarri (nonché inquietanti), in attesa di un finale prettamente horror dove vengono a galla i segreti più terribili di quel piccolo villaggio.
Roope Olenius (qui al suo debutto) vuole farci capire che pure in Finlandia esistono i bifolchi: sono lontani anni luce da quelli texani con la barba folta, la camicia a quadri e il collo arrossato (i famigerati redneck), ma sono anch’essi capaci di mettere a disagio le proprie vittime, anche solo con uno sguardo. Poi ci sono le donne del luogo, un po’ strambe e ovviamente complici dei loro uomini, perché una volta arrivati a Kyrsyä certi avvenimenti è meglio che restino circoscritti all’interno della propria comunità.
Non c’è dubbio che la pellicola risulti affascinante sotto vari punti di vista (la lingua finlandese ha sempre il suo perché), però “Kyrsyä” riesce a entrare nel vivo con eccessivo ritardo, quando ormai abbiamo capito tutto e c’è poco da fare per la nostra povera malcapitata. Tra le immagini più controverse dell’opera, segnaliamo una violenza sessuale piuttosto brutale e selvaggia e poi ancora le ultimissime battute del film, dove finalmente si respira cinema horror a pieni polmoni (seppur con le sue onnipresenti anomalie). Tutto quello a cui invece assistiamo prima è una fase preparatoria nella quale vengono lanciati alcuni indizi, un passaggio dove non accade un granché se escludiamo qualche pungente dialogo in cui emerge l’enorme differenza tra questi contadini e la civiltà del progresso (un mondo che loro chiamano il big world). Per Roope Olenius poteva andare meglio, considerando questa sua naturale predisposizione nel saper miscelare più generi all’interno dello stesso prodotto: il risultato non convince al cento per cento e sul piatto rimane soltanto un titolo curioso, un piccolo sfizio che volendo ci si può togliere a tempo perso.

(Paolo Chemnitz)
