
di Béla Tarr (Ungheria/Germania/Svizzera, 1994)
“Sátántangó” rappresenta una delle più importanti esperienze cinematografiche di sempre, perché dopo una tale immersione (della durata di ben sette ore e diciannove minuti) nulla sarà più come prima. Questa pellicola ci permette una totale e assoluta proiezione all’interno dell’universo concettuale di Béla Tarr, un mondo pregno di pessimismo e di nichilismo in cui l’essere umano subisce passivamente gli accadimenti (e gli inganni) che si materializzano attorno a lui. Un pensiero filosofico ben delineato capace di rigenerarsi con grande potenza in alcune delle sue opere successive, le quali però possono essere comprese nella loro interezza solo partendo da qui. Da questo punto di non ritorno.
Ispirato solo marginalmente dall’omonimo romanzo di László Krasznahorkai, “Sátántangó” ci racconta del collasso di una cooperativa agricola durante la fine del comunismo in Ungheria, anche se la collocazione temporale del film non è assolutamente chiara e soprattutto interessa poco al regista (al contrario dell’incessante scorrere dei secondi, spesso sottolineato dal costante ticchettio degli orologi). In questo luogo vivono una dozzina di individui allo stato brado, circondati soltanto dal fango (la pioggia è incessante) e dalle bestie: questi uomini attendono solo il denaro in arrivo dallo stato, legato proprio alla chiusura di questa comunità. Ma c’è l’astuto personaggio di Irimiás, sparito da due anni, di ritorno tra le mura della fattoria, una figura messianica destinata a travolgere questi contadini dal futuro incerto (si acuiscono conflitti e divisioni, mentre il tempo continua a ingannare ogni essere umano, risucchiato da un ciclo destinato a ripetersi inesorabilmente).
Questa breve retrospettiva vuole soltanto rimarcare alcuni aspetti di un lungometraggio per il quale servirebbero pagine e pagine di libri per poterlo esaminare in tutta la sua interezza. Non a caso il cinema di Béla Tarr racchiude un’illuminante eredità filosofica capace di cavalcare le più alte forme di esistenzialismo: l’iniziale piano sequenza sulle mucche non solo infatti ci permette di entrare immediatamente nel cuore di una location squallida e deprimente, ma rappresenta anche una chiara metafora della vita quotidiana di questa comunità, un presente sporco, statico e apatico dove però gli animali hanno un maggior raggio di azione. Loro almeno possono muoversi (quasi) liberamente, al contrario invece di quei fotogrammi che mostrano questi individui, chiusi nelle loro anguste stanze, mentre osservano passivamente ciò che accade al di fuori della finestra (un buio interno/interiore contrapposto a una luce esterna che non sembra appartenere a questi contadini destinati all’oblio).

I monologhi hanno maggiore importanza dei dialoghi: quello di Irimiás o quello dell’ufficiale Százados tracciano dei solchi profondi all’interno delle vicende, parole da comprendere e da interpretare sempre con un approccio filosofico (“not that human life was so highly valued. Keeping order appears to be the business of the authorities, but in fact it’s the business of all. Order. Freedom, however, has nothing human. It’s something divine, something… our lives are too short for us to know properly. If you’re looking for a link, think of Pericles, order and freedom are linked by passion. We have to believe in both, we suffer from both. Both from order and freedom”). Scintille divine di rara potenza che ci permettono di riflettere sulla miseria umana, poiché l’uomo è incapace di saper governare i propri istinti, quando invece sia l’ordine che la libertà possono convivere in lui attraverso la consapevolezza individuale. L’arrivo di Irimiás nella fattoria è dunque legato all’assenza di spirito da parte dei contadini, perché come le bestie, anche gli esseri umani hanno bisogno di una guida che li conduca successivamente al macello. Un falso messia, strettamente connesso all’idea di morte.
Successivi capolavori come “Le Armonie Di Werckmeister” (2000) o “Il Cavallo Di Torino” (2011) si pongono quindi come ideali vertici di un triangolo nel quale il primo tassello è incarnato proprio da “Sátántangó”, una gabbia alienante capace di paralizzare il nostro sguardo inquadratura dopo inquadratura (poche in realtà, considerato l’utilizzo costante del piano sequenza). Il cinema di Béla Tarr è un messaggio all’umanità tutta, un monito tanto doloroso quanto magnetico circondato da un silenzio assordante. Per noi comuni mortali, soltanto pioggia e disperazione.

(Paolo Chemnitz)

Grazie Paolo per la recensione. Un film di estrema complessità e che nonostante la durata immane riesce a coinvolgere dal primo all’ultimo minuto. Talmente miracoloso che quando lo guardo ometto anche la lettura dei sottotitoli. Non so di cosa parli il film ,non mi importa, né mi riguarda,l’unica cosa che conta è nella visione,in ciò che viene mostrato.
P.s. fanny e alexander, la grande abbuffata, quattro mosche di velluto grigio,la verifica incerta, l’esorcista, la scala a chiocciola…piano piano,non ho fretta 🤣🤣🤣🤣🤣
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