
di Álex De La Iglesia (Messico/Spagna, 1997)
Due anni dopo l’uscita del cult “El Día De La Bestia” (1995), Álex De La Iglesia subentra al collega Bigas Luna per la realizzazione di “Perdita Durango”, un film piuttosto ambizioso (ispirato a un romanzo di Barry Gifford) che viene prontamente plasmato attraverso le frizzanti derive pulp che stavano spopolando in quel periodo (torna in mente soprattutto “Dal Tramonto All’Alba” di Robert Rodriguez, uscito nel 1996). De La Iglesia ha la possibilità di dirigere un attore come Javier Bardem – qui davvero al top della forma – per l’occasione affiancato dalla presenza di Rosie Perez, lei invece nei panni di un altro personaggio sopra le righe (con rimandi più o meno espliciti alla cazzutissima Tura Satana vista in “Faster, Pussycat! Kill! Kill!”). Ne esce fuori un action movie tutto sex & violence, il cui valore è in parte rovinato da una durata spropositata (due ore abbondanti).
La Perez è Perdita Durango, una donna solitaria e pericolosa che vive al confine tra Messico e Stati Uniti: l’incontro con Romeo Dolorosa (Bardem) si rivela fatale, poiché l’uomo è un rapinatore di banche da tutti creduto uno stregone. Una volta insieme e sulla strada per Las Vegas, la coppia di psicopatici sequestra due giovani fidanzatini americani, uno dei quali destinato a un sacrificio umano. Così tra stupri, bizzarre cerimonie rituali, sparatorie improvvise e tradimenti, l’opera giunge alla conclusione lasciandoci un po’ confusi e storditi.

Álex De La Iglesia qui ha tanto materiale a disposizione, talmente tanto da riuscire inconsapevolmente a disperderlo in una seconda parte sicuramente meno accattivante e coinvolgente, in cui le suggestioni da road movie finiscono per graffiare meno del dovuto. Un peccato, perché gli ingredienti per divertirsi ci sono tutti, a cominciare da una coppia di attori in grande spolvero (il look di Javier Bardem è impagabile). Il regista spagnolo non guarda soltanto a Rodriguez e Tarantino, perché il personaggio di Perdita Durango era già finito sullo schermo con “Cuore Selvaggio” (1990) di David Lynch (il nostro film in esame per certi versi può essere considerato uno spin-off). Inoltre in una scena, De La Iglesia cita apertamente “Vera Cruz” (1954) di Robert Aldrich.
Se “Perdita Durango” fosse riuscito a sfondare e a convincere pienamente, il cinema di Álex De La Iglesia probabilmente si sarebbe evoluto in maniera differente, mentre già con le successive pellicole abbiamo assistito a un ritorno in Spagna con più attenzione per lo script (in “Perdita Durango” l’apporto di Jorge Guerricaechevarría è meno decisivo), in un’ottica spesso in bilico tra grottesco e commedia nera. Quest’avventura si rivela comunque valida sotto una serie di punti di vista (la follia dei dialoghi è pura poesia per le orecchie), ma senza la giusta continuità “Perdita Durango” è solo un film moderatamente positivo, un prodotto che da una scintillante giostra luciferina fatta di sangue e di violenza si trasforma in un polpettone fin troppo caotico per convincere al cento per cento.

(Paolo Chemnitz)
