
di Joe Dante (Stati Uniti, 1981)
Il 1981 è stato un anno molto importante per il cinema dei licantropi: nel giro di pochi mesi escono infatti “L’Ululato” di Joe Dante e poi a ruota “Un Lupo Mannaro Americano A Londra” di John Landis, con il primo più orientato sull’horror tout court, al contrario del film di Landis, più coerente a livello narrativo e oggettivamente migliore sotto diversi punti di vista (nonostante il suo approccio più leggero, quasi da commedia). Due pellicole messe spesso in competizione tra loro, anche solo per decretare la migliore trasformazione in lupo mannaro vista sugli schermi in quel periodo (in tal caso è più difficile scegliere, perché in entrambe le occasioni il trucco e gli effetti speciali rendono davvero al meglio). Al di là di questo doveroso preambolo, “L’Ululato” (“The Howling”) ha rappresentato un importante trampolino di lancio per Joe Dante in ottica “Gremlins” (1984), il suo cult per eccellenza.
I primi venti-trenta minuti dell’opera hanno poco a che vedere con la licantropia, perché “L’Ululato” parte come un thriller metropolitano: Karen White (Dee Wallace), una giornalista televisiva perseguitata da un serial killer, viene utilizzata come esca dalla polizia per arrivare al maniaco. La resa dei conti avviene all’interno di un locale porno, dove il tempestivo intervento delle forze dell’ordine evita il peggio. Karen esce però traumatizzata da quell’esperienza, così su consiglio di uno psicologo, viene invitata a trascorrere alcuni giorni di relax in una colonia in mezzo alle montagne. Ma proprio in questo luogo isolato conosciamo alcuni strambi personaggi che in breve tempo rivelano la loro vera natura.
“A secret society exists and is living among all of us. They are neither people nor animals, but something in-between”. “L’Ululato” è un film che riesce a cambiare più volte registro, un prodotto tuttavia capace di far salire il livello di tensione in una seconda parte quasi completamente declinata sul versante horror (Joe Dante comunque non rinuncia mai all’ironia). Inoltre il regista è bravo nel saper modernizzare la figura del lupo mannaro rapportandola all’epoca dei mass media: una pellicola quindi rigorosamente incastonata nel presente storico, pur nelle sue inesorabili sfumature da vecchia favoletta fantasy (il bosco, la nebbia, gli ululati in lontananza).
Il film, basato (fino a un certo punto) sull’omonimo romanzo di Gary Brandner, è entrato di diritto tra le opere più amate nel genere di riferimento: non possiamo che essere d’accordo, perché il cinema dei lupi mannari degli ultimi quarant’anni non è che ci abbia offerto chissà quanti esempi da ricordare. Ecco perché torniamo sempre al 1981, un anno di grazia per questo tipo di pellicole, con Landis a guidare e Dante quasi sulla scia, giusto una spanna sotto.

(Paolo Chemnitz)

Un signor film non c’è che dire. Uno dei migliori film che parla di licantropi e uno tra i miei preferiti.
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