
di Yorgos Lanthimos (Germania/Stati Uniti/Gran Bretagna, 2019)
Quando Yorgos Lanthimos ritrova una pedina fondamentale come lo sceneggiatore Efthymis Filippou, allora possiamo stare certi che nulla è come sembra, pure se si tratta di un cortometraggio di appena dodici minuti. Il regista greco qui rimette in circolo non solo la sua personale estetica cinematografica, ma soprattutto quel linguaggio surreale che si era inesorabilmente affievolito con l’ultimo lavoro del 2018 (il più commerciale “La Favorita”). Tutto ciò senza rinunciare a una pedina importante nel cast: qui è infatti Matt Dillon (reduce dall’apoteosi “La Casa Di Jack”) a tenere in piedi le vicende, in un ruolo completamente straniante fin dalle primissime battute.
Un uomo si sveglia, è una mattinata come tante altre: il montaggio ci porta subito in un teatro, dove questo individuo si reca quotidianamente per provare con il suo violoncello in vista di uno spettacolo. Di ritorno in metropolitana, il nostro protagonista chiede a una donna “do you have the time?” e come risposta si becca un identico “do you have the time?”. Questa figura lo segue come un’ombra e una volta rientrati tra le mura domestiche, veniamo completamente assorbiti da questa presenza speculare così ambigua, in poche parole un doppelgänger capace di mettere persino in dubbio l’identità stessa dell’uomo (la domanda dei figli o le immagini in camera da letto rappresentano due passaggi eloquenti del lavoro).
Se in “Nimic” c’è qualcosa di circolare, lo capiamo fin da subito dal disegno sulla locandina, un eterno ritorno che si materializza su ogni livello nell’implacabile epilogo. Lanthimos gioca con l’identità, lasciandoci intuire che nessuno è intoccabile all’interno della società, soprattutto in una famiglia borghese dove la sostituzione di un membro può essere attuata con estrema nonchalance (c’è qualcosa che ci riporta indietro fino ad “Alps”). Ecco che così l’elemento perturbante (la brava nonché inquietante Daphné Patakia) entra in circolo come un veleno, sia nella banalità del quotidiano che nei dettagli più intimi (quelle sequenze marcatamente fetish in cui vengono inquadrati i piedi).
L’utilizzo estremo del grandangolo e delle carrellate sottolinea l’intento principale del regista, ovvero quello di accompagnare la situazione surreale con un’estetica altrettanto alienante, al fine di ottenere un risultato ancora più prorompente: intenzioni che funzionano ancora una volta come in passato, lasciando mille domande aperte a fine visione. Per Yorgos Lanthimos un corto di spessore.

(Paolo Chemnitz)
