Poltergeist

di Tobe Hooper (Stati Uniti, 1982)

“Poltergeist” rappresenta un esempio lampante di cinema fantastico tout court, una pellicola dal grande impatto culturale divenuta nel giro di poco tempo una delle più significative degli anni ottanta. Il merito va ricercato nei contrasti da cui è permeata, a cominciare dalla stoffa differente che contraddistingue i suoi artefici: da una parte il regista Tobe Hooper, un vero maestro del cinema horror a basso costo, dall’altra invece un produttore/sceneggiatore come Steven Spielberg, la cui impronta qui è ben visibile soprattutto nella prima metà dell’opera. In poche parole “Poltergeist” sembra un film cominciato da Spielberg e finito da Hooper, come se due staffettisti a un certo punto si passassero il testimone.
Ci troviamo in una ricca zona residenziale della California, dove una classica famigliola borghese conduce una quotidianità in apparenza felice: i coniugi Freeling e i loro tre figli Dana, Robbie e Carol Anne vivono infatti un’esistenza tranquilla, il riflesso di quel sogno americano tanto decantato all’epoca dal presidente Reagan. L’approccio tipicamente spielberghiano qui è evidente, “Poltergeist” è attraversato da una patina luminosa e commerciale che non viene messa in discussione neppure dalle prime avvisaglie del fenomeno sovrannaturale che dà il titolo al film, un elemento perturbante capace di manifestarsi anche sotto forma di fiaba nera (i lampi, i tuoni e quell’albero dalle sembianze mostruose che sembra volersi animare da un momento all’altro). Fanciullesco ma affascinante. Quando invece entra in gioco la parapsicologia (con tanto di studiosi all’interno della casa incriminata), “Poltergeist” comincia a spostarsi sul versante horror, facendo uscire allo scoperto la sua carica più viscerale, culminata con un epilogo assolutamente riuscito in cui Tobe Hooper torna a essere Tobe Hooper (gli scheletri nella piscina, tutti rigorosamente veri).
“Poltergeist” ha avuto il merito di fissare alcune delle regole basilari per l’attuale cinema fantastico/sovrannaturale, pensiamo ad esempio a un horror di successo come il recente “Insidious” (2010), dove a un soggetto differente corrisponde comunque uno sviluppo narrativo decisamente simile (la manifestazione del fenomeno, l’intervento di un membro esterno alla famiglia, il contatto con l’aldilà, il gran finale creepy). Se quindi togliamo di mezzo qualche inutile scena di buonismo familiare e un paio di attori non all’altezza (meglio i ragazzini che i genitori), “Poltergeist” si dimostra un lavoro confezionato alla grande oltre che un film perfetto per l’epoca in cui è stato realizzato.
Curioso il fatto che un lungometraggio del genere sia considerato maledetto: c’è però da dire che una serie di avvenimenti luttuosi hanno colpito alcuni protagonisti della serie dedicata a “Poltergeist”, a cominciare dalla tragica fine dell’attrice Dominique Dunne (la figlia maggiore Dana), strangolata dal suo ex fidanzato pochi mesi dopo l’uscita del film, senza dimenticare la scomparsa della piccola Heather O’Rourke (la bionda Carol Anne), morta a soli dodici anni in seguito a una brutta malattia. Corsi e ricorsi storici che ormai fanno parte dell’essenza stessa della pellicola, un prodotto che non è mai invecchiato proprio per il suo felice compromesso tra presente e futuro (gli effetti speciali sono ancora oggi eccellenti). Spielberg e Hooper bravi e furbi.  

(Paolo Chemnitz)

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