
di John Waters (Stati Uniti, 2004)
Pochi giorni fa, la Festa del Cinema di Roma ha ospitato John Waters in uno degli incontri più interessanti tra quelli a cui abbiamo assistito durante gli ultimi anni. Dietro il suo personaggio istrionico e dissacrante si nasconde sempre lo spirito di un’intellettuale pronto a combattere delle battaglie molto più serie rispetto al cazzeggio tipico dei suoi film, un regista che non appena è arrivato in città ha chiesto di essere condotto a Ostia per visitare il luogo dove fu ucciso Pasolini. Non deve dunque ingannare il passaggio dalla prima fase di Waters (quella storica conclusasi con “Polyester” nel 1981) a una seconda più soft e commerciale, perché le sue tematiche hanno spesso mantenuto il loro impeto antiborghese, soprattutto in una pellicola come “A Dirty Shame”, un quasi ritorno ai gloriosi anni settanta.
Qui ovviamente, se escludiamo Mink Stole, non c’è nessun reduce del passato ed è chiaro che senza Divine o Edith Massey la potenza iconografica dell’opera parte già con qualche punto di svantaggio: Tracey Ullman è comunque brava nei panni della protagonista Sylvia, una bacchettona che ripudia il sesso così come tutta la sua famiglia (con l’eccezione della figlia Caprice, dotata di tette gigantesche). In questa zona periferica di Baltimora gli abitanti si dividono in neutri (ovvero i puritani) e in libertini, questi ultimi veri e propri soggetti perennemente arrapati e capaci di fare sesso in qualunque situazione possibile. In seguito a una violenta botta alla testa (capace di far cambiare sponda ai vari personaggi), Sylvia conosce il leader dei maniaci sessuali (Ray Ray è interpretato da Johnny Knoxville), diventando a sua volta una provocante ninfomane (“I seen you, Sylvia Stickles, showing your pubic patch to the bus driver. You should move downtown where you belong, you whore”).
John Waters qui ritorna su uno degli argomenti pilastro del suo cinema, quello legato al moralismo e alla libertà sessuale. Cresciuto in una famiglia rigorosamente cattolica, il regista americano ha sempre ironizzato sulla sua educazione (“I thank God I was raise catholic, so sex will always be dirty”), trasformando le sue opere in veri e propri oltraggi al pudore. “A Dirty Shame” mostra meno schifezze rispetto alle premesse e risulta comunque più forzato in confronto alle vecchie imprescindibili opere, ma non perde di una virgola la sua carica irriverente e provocatoria, puntando soprattutto su alcune scene davvero esilaranti (quella della bottiglia di plastica non si batte).
Lasciato quindi alle spalle quell’immaginario exploitation capace di regalarci degli incredibili cult, Waters non si scompone e tira fuori una commedia politicamente scorretta ancora in grado di far incazzare la censura: dopotutto nel giro di trent’anni gli Stati Uniti non sono di certo cambiati e il tema messo sul piatto è più caldo e attuale che mai, pur con tutte le sue esagerazioni. Novanta minuti scarsi che passano in un batter d’occhio, “A Dirty Shame” è tutto qui, non un classico della cinematografia watersiana ma comunque un film assolutamente fuori di testa, come pochi se ne vedono in giro.

(Paolo Chemnitz)
