
di Dagur Kári (Islanda, 2003)
C’è poco da stare allegri con “Nói Albinói”, produzione islandese del 2003 che lascia davvero poco spazio alla speranza. La location isolata (un piccolo paese sulla costa nord-occidentale dell’isola) parla da sola, perché trascorrere gran parte della propria esistenza circondati da cumuli di neve non deve essere affatto semplice. Poi c’è il diciassettenne Nói (Tómas Lemarquis), un ragazzo albino considerato lo scemo del villaggio, un disadattato che non riesce a trovare il suo posto in quella minuscola ma organizzata comunità. Sono dunque tanti gli elementi che rendono “Nói Albinói” un film triste e privo di appigli: l’unica soluzione è sognare, fantasticare, per poi cercare in qualche modo una via di fuga verso un luogo lontano.
Dagur Kári punta i fari esclusivamente sulla quotidianità del protagonista: Nói non è affatto stupido (conosciamo fin da subito le sue facoltà mentali), ma allo stesso tempo egli non nutre alcun interesse nei confronti della scuola. Con un padre alcolizzato e la sola nonna accanto a lui, questo bizzarro individuo si crea una propria singolare esistenza, rinchiudendosi in un mondo del tutto particolare fatto di solitudine e di una routine purtroppo deleteria. Quando il rapporto (praticamente platonico) con una ragazza di nome Iris gli offre una sorta di scappatoia, un tragico evento cambia nuovamente le carte in tavola, invitandoci tuttavia a riflettere sul ruolo chiave delle persone colpite da questo funesto accadimento.
L’atmosfera di “Nói Albinói” è davvero straniante, non solo per la gelida fotografia assolutamente perfetta per l’occasione, ma anche per via di qualche passaggio più surreale, quasi da commedia nera (il cinema di Aki Kaurismäki non è poi così lontano). In mezzo a questo mare di ghiaccio perenne, veniamo sepolti dal disagio di un protagonista completamente disorientato dalla sua stessa esistenza: prevale quindi l’amarezza, un sentimento di cui è pregno ogni fotogramma del film (nulla cambia se dagli spazi aperti ci rintaniamo dentro un’angusta cantina).
Quello di Dagur Kári è un prodotto tipicamente nordico in cui ogni situazione è ridotta all’essenziale, anche per quanto riguarda i dialoghi. Ma la forza dell’opera è da ricercare nella sua anomala evoluzione, perché se a un certo punto la pellicola sembra imboccare la strada del melodramma, è quell’epilogo totalmente nichilista a rimettere ogni tassello al posto giusto, nonostante le ultime immagini forse rassicuranti, forse ambigue oltremisura (per fortuna il regista non cade mai nel didascalico). “Nói Albinói” è un film ostile, insolito, diverso da tanti altri: per questo motivo, fin dalla prima visione al cinema nel lontano 2003, è entrato con prepotenza nei nostri cuori.

(Paolo Chemnitz)
