
di David Slade (Stati Uniti, 2005)
Dopo aver girato alcuni videoclip per gente del calibro di Aphex Twin, Tori Amos, Stone Temple Pilots e System Of A Down, la carriera di David Slade è proseguita nel mondo del cinema e delle serie televisive. Anche se molti di voi si ricorderanno del suo celebre horror “30 Giorni Di Buio” (uscito nel 2007 e prodotto da Sam Raimi), oggi ci è sembrato doveroso fare un piccolo passo indietro per spendere due parole su “Hard Candy”, l’esordio di Slade targato 2005.
Con un po’ di fantasia (il soggetto è piuttosto inverosimile), il regista britannico dirige un’opera incentrata su un tema delicato, quello delle molestie sessuali nei confronti dei minori, spostando però in avanti le lancette: questa volta infatti ogni presunto crimine è già stato consumato, non resta dunque che adescare il maniaco per compiere la più atroce delle vendette. Il piano viene attuato dalla giovane e intraprendente Hayley Stark (Ellen Page), una ragazzina quattordicenne molto più sveglia e consapevole di tante sue coetanee (“solo perché una ragazza sa come imitare una donna, non vuol dire che sia pronta a fare ciò che fa una donna”). Tramite una lunga conversazione in chat, Hayley conosce un fotografo di nome Jeff (Patrick Wilson), quest’ultimo sospettato di essere l’assassino pedofilo di un’amica di Hayley scomparsa da tempo. Una volta a casa dell’uomo, il rapporto inizialmente cordiale tra Jeff e la protagonista presto lascia spazio a una sadica ritorsione senza esclusione di colpi.
“Hard Candy” sfrutta a dovere l’impianto teatrale di una curatissima location interna, un appartamento moderno ed elegante in cui si muovono questi due eccellenti interpreti: lui è il lupo cattivo, lei invece – come si evince anche dalla locandina – è la versione aggiornata (e agguerrita) di Cappuccetto Rosso. Questo rapporto a lungo andare diventa persino paradossale, poiché non è facile parteggiare per la giovane aguzzina, nonostante la vittima sia un individuo ambiguo e presumibilmente colpevole. La forza di “Hard Candy” si riduce proprio al dualismo di cui sopra, un rimpallo di accuse che non ci consente di prendere una posizione definitiva sulla faccenda. Non a caso anche il titolo del film mette in contrasto qualcosa di aspro con qualcosa di dolce, l’innocenza e la violenza al di là del bene e del male, pur con i leciti dubbi morali di una giustizia privata qui portata alle estreme conseguenze. Forse bisogna diventare dei mostri per combattere un mostro?
Saper apprezzare questa pellicola significa anche essere capaci di accettare una certa spettacolarizzazione della crudeltà, un sadismo messo in circolo dal regista britannico con tutte le forzature del caso: assurdità a parte, “Hard Candy” è un thriller che funziona e che appassiona, un prodotto furbo e attraente (notevoli gli accostamenti cromatici) completamente giocato sulla tensione psicologica. Pollice in su.

(Paolo Chemnitz)
