Patrick

di Richard Franklin (Australia, 1978)

La lunga e affascinante strada percorsa dal cinema di genere australiano non sarebbe stata tale senza l’apporto di “Patrick”, un lavoro all’epoca snobbato in patria ma sorprendentemente apprezzato all’estero. Quello di Richard Franklin, pur non essendo un horror da consegnare ai posteri, diventa così in breve tempo il film portabandiera dell’intera corrente ozploitation, una pellicola considerata persino di culto in Italia tanto da far mettere in moto l’idea di un sequel apocrifo, sopraggiunto poi nel 1980 con l’agghiacciante “Patrick Vive Ancora” di Mario Landi.
L’aspetto interessante di “Patrick” è legato all’elemento perturbante (il protagonista), non il classico mostro assassino capace di muoversi nell’ombra ma un degente in carne e ossa ridotto in stato vegetativo dentro la stanza di una clinica. Un paziente immobile eppure deleterio: Patrick infatti usa il potere della mente per provocare degli incidenti ad alcuni personaggi da lui detestati, poiché troppo ostili (o comunque vicini) nei confronti della giovane Kathy Jacquard, l’infermiera che ha in cura il ragazzo. Una forma di gelosia capace di manifestarsi anche attraverso dei messaggi elaborati con la macchina da scrivere, utilizzata dall’uomo solo con la forza del pensiero.
L’aspetto inquietante del film è proprio questo bel faccione che Richard Franklin ci sbatte sullo schermo, un viso capace di infondere timore soprattutto per via di quegli occhi perennemente sgranati (un’immagine che non si dimentica). Quando poi Patrick adopera una sorta di segnale (praticamente degli sputi) per rispondere a Kathy, la posta in gioco si alza e lentamente entriamo in quella spirale di follia capace di esasperare al massimo le premesse iniziali. Il budget è davvero risicato ma la sostanza regge abbastanza bene, nonostante un minutaggio (eccessivo) di quasi due ore e qualche passaggio a vuoto in cui si devia fin troppo sulla vita personale dell’infermiera. Nella versione italiana la colonna sonora è stata curata dai Goblin, un valore aggiunto che sottolinea ancora una volta l’importanza di “Patrick” per la memoria horror del nostro paese: probabilmente ci troviamo al cospetto di un’opera che è riuscita nel tempo a raccogliere più di quanto seminato, un prodotto tuttavia abbondantemente sufficiente capace di far leva su questo soggetto impassibile, un individuo non più estraneo e misterioso bensì centrale e visibile più di ogni altra cosa.
Con “Patrick” il regista australiano non inventa nulla di nuovo (il cinema imperniato sui poteri psichici ci aveva da poco deliziati con “Carrie”), ma ribalta queste intriganti prospettive proponendocele sotto una nuova veste, un approccio accattivante quanto basta per colpire a fondo. Un piccolo film, diventato a suo modo grande.

(Paolo Chemnitz)

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