Hope

di Lee Joon-Ik (Corea del Sud, 2013)

Durante lo scorso decennio, in Corea del Sud si sono distinti un paio di film entrambi legati da una tematica molto delicata, quella incentrata sugli abusi sessuali nei confronti dei minori: se “Silenced” (2011) ha sbaragliato la concorrenza al Far East Festival di Udine, questo “Hope” (di due anni successivo) ha trovato comunque tanti estimatori in giro per il mondo. Non si tratta però di un’opera adatta a chiunque, nonostante il messaggio in parte positivo e una sensibilità di fondo nel trattare tali argomenti degna di tutto il nostro rispetto.
Lee Joon-Ik si ispira a una storia realmente accaduta: è una giornata di pioggia e la piccola So-Won (un nome che tradotto significa proprio speranza) si sta recando a scuola da sola. A un certo punto un vagabondo ubriaco la afferra a la conduce in una viuzza isolata, dove la ragazzina viene brutalmente violentata. Ovviamente non vediamo nulla di tutto ciò, perché “Hope” comincia praticamente dentro le mura di un ospedale, dove ritroviamo questa bambina ricoverata in pessime condizioni (ha il volto tumefatto e necessita di un intervento di colostomia, qualcosa di terribile che cambierà per sempre il suo futuro). I genitori di So-Won sono due persone molto semplici (il padre è operaio) sull’orlo del baratro, il dolore è straziante e tutta la prima parte del film è molto dura dal punto di vista psicologico. Senza spettacolarizzare nulla, il regista coreano ci conduce nel cuore di queste vicende con il giusto realismo, facendo partire nello stesso istante un’indagine più o meno interessante che si risolve con un epilogo decisamente amaro (la critica al sistema giudiziario locale non è affatto velata). In mezzo a tutto ciò c’è la speranza, la possibilità di far sorridere ancora la piccola protagonista attraverso gli espedienti che piacciono tanto ai bambini (quando il papà si infila dentro un pupazzo, assistiamo a una lezione di umanità e di tenerezza davvero toccante). 
“Hope” è un lungometraggio che sceglie l’unica strada possibile, quella della sobrietà: un prodotto capace di oscillare in maniera equilibrata tra disperazione e cauto ottimismo, esplorando il disagio di una famiglia come tante costretta suo malgrado a dover ripartire da zero, da una figlia devastata che inizia ad aver paura di tutti gli uomini, persino del padre. L’interpretazione di questa ragazzina è incredibile, ma ogni pedina principale del cast merita un elogio. Non trova invece molto spazio la figura del balordo pedofilo, personaggio che ha un’importanza relativa per l’economia dell’opera (ecco perché possiamo parlare di cinema drammatico nell’accezione più pura del termine, senza dover scomodare le dinamiche da thriller viste in molte pellicole coreane incentrate su maniaci e serial killer vari).
Ci troviamo davanti a un film estremo nel suo involucro ma commovente nella sua anima, un approccio che per fortuna aggira ogni tipo di sentimentalismo da quattro soldi lasciando spazio a una realtà dei fatti che bisogna accettare fino all’ultimo boccone. “Hope” va affrontato con una certa consapevolezza e con la giusta preparazione, poiché si tratta di un lavoro di due ore all’interno del quale le tante emozioni contrastanti possono davvero far male. Anche se, come diceva un vecchio saggio, la speranza è più della vita.

(Paolo Chemnitz)

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