
di Sean Baker (Stati Uniti, 2017)
Che Sean Baker fosse un regista di talento lo si era già intuito con “Starlet” (2012) ma soprattutto con “Tangerine” (2015), quest’ultimo vero e proprio trampolino di lancio per uno dei titoli indipendenti più acclamati degli ultimi anni, “The Florida Project” (“Un Sogno Chiamato Florida”), un fulgido esempio di realismo sociale americano. Baker gira infatti un dramma al limite del documentaristico, buttando nella mischia un manipolo di attori non professionisti (molti dei quali bambini) se escludiamo la presenza di Willem Dafoe (qui nel ruolo di Bobby).
Il plot è abbozzato e ha poca importanza, perché “The Florida Project” è prima di tutto un cinema dei contrasti, l’altra faccia di quel paese delle meraviglie chiamato Walt Disney World: a pochi passi dal parco dei divertimenti più celebrato del mondo sorge infatti un grande motel dalle pareti lilla nel quale tante famiglie vivono praticamente alla giornata. Ci troviamo nei sobborghi di Orlando, dove ogni luogo sembra essere stato costruito in funzione di Walt Disney World, persino il chiosco che vende le arance (ovviamente a forma di arancia). La telecamera si muove ad altezza bambino, incarnando lo sguardo innocente della piccola Moonee e dei suoi amichetti, lasciati spesso soli dai loro genitori e liberi di scorrazzare in quei cortili privi di anima (i ragazzini trascorrono il tempo facendo dispetti ai vicini o elemosinando monete ai turisti per potersi comprare qualche gelato). Successivamente, il rapporto tra Moonee e la sua giovane mamma single (Halley) diventa lo snodo centrale su cui vertono gli eventi, in attesa di un finale inesorabilmente amaro.
L’opera di Sean Baker colpisce immediatamente per l’ottima regia, inquadrature mai banali che studiano il territorio e lo scandagliano metro dopo metro: uno squallore suburbano attenuato solo in apparenza da quei colori pastello, studiati appositamente per far sembrare quelle dimore una sorta di appendice del parco Disney. Peccato però che da queste parti regni il disagio, la miseria e l’arte di arrangiarsi, mentre i bambini ripetono di continuo le stesse azioni quotidiane con l’ingenuità di chi ancora non ha tutto il peso della vita sulle spalle. “The Florida Project” suona dunque come una beffa, perché la speranza passa proprio accanto a questi ragazzini, come se quell’arcobaleno fosse una scala per arrivare nel castello incantato che osserviamo nel simbolico epilogo del film (praticamente una fuga dalla realtà).
C’è tanta umanità in questo lungometraggio, un aspetto che per fortuna non viene mai inquinato da improbabili redenzioni o dai soliti buoni sentimenti spesso presenti nel cinema americano: Sean Baker lascia correre queste due ore senza forzare nessuna situazione, preservando perciò quella spontaneità che di riflesso prende forma nelle eccellenti prove dei piccoli attori. “The Florida Project” è aria fresca per il cinema indie americano, lo studio antropologico di una precaria comunità che non vorrebbe mai smettere di sognare.

(Paolo Chemnitz)


Che gran film! L’ho veramente amato, una regia documentarista stupenda, un Dafoe un attore incredibile come sempre e una giovane attrice straordinaria per la sua età.
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