di David Lynch (Stati Uniti/Francia, 1997)
Molti film di David Lynch non hanno bisogno di alcuna spiegazione, altrimenti non sarebbero film di David Lynch. Cominciare con questa semplice constatazione forse è il modo migliore per buttare giù due righe su “Strade Perdute” (“Lost Highway”), un noir tanto criptico quanto magnetico capace di mutare la pelle in maniera repentina pur mantenendo intatta la sua essenza. La struttura narrativa dell’opera non è lineare, ma questo salto nel vuoto non viene avvertito in quanto ci si muove sempre sulla stessa superficie, come se fossimo aggrappati sopra a un Nastro di Möbius.
Lynch è coadiuvato in fase di sceneggiatura dallo scrittore Barry Gifford, il quale già aveva fornito la giusta ispirazione al regista per “Cuore Selvaggio” (1990). Tuttavia il road movie stavolta lascia spazio al thriller surreale, a una storia in cui il delirio e le ossessioni del protagonista ci prendono per mano trasportandoci in quel punto perso nell’infinito dove due rette parallele si incontrano. Alla faccia del paradosso.
Il protagonista di tali assurdità è Fred Madison (Bill Pullman), musicista jazz in crisi con la moglie Renee (interpretata da Patricia Arquette). Attraverso la visione di alcune videocassette recapitate nella loro abitazione, la polizia identifica Fred come l’assassino della donna, conducendolo perciò in carcere: la quotidianità in prigione mette a dura prova questo uomo di mezza età, un tracollo psico-fisico che si traduce con continue emicranie e allucinazioni, fino a quando un mattino come tanti un agente del penitenziario trova in cella un giovane di nome Pete Dayton al posto dell’indiziato. Pete (Balthazar Getty) nella vita di tutti i giorni fa il meccanico e non ha commesso alcun reato. La polizia, ancora sbalordita da questo evento, lo rilascia, ma allo stesso tempo mette una pattuglia alle sue calcagna. Le vicende diventano ancora più ingarbugliate quando questo ragazzo viene sedotto da una provocante femme fatale di nome Alice (ancora Patricia Arquette), mentre iniziamo a ricollegare il prima e il dopo attraverso molti elementi che David Lynch ricolloca lungo il percorso.
La trama in verità è ancora più ingarbugliata del previsto, inutile però entrare nei dettagli quando non è necessario mettere ogni fotogramma al proprio posto: al contrario, il regista lancia per aria mille pezzi, facendoli ricadere a caso e lasciando allo spettatore il compito di ricomporre il puzzle tessera dopo tessera. Un approccio geniale poiché studiato nei minimi particolari, dove chi osserva deve soltanto sprofondare nelle immagini, come nella più affascinante delle ipnosi. Le strade perdute sono quelle della mente, di una psiche che può permettersi ogni viaggio senza alcuna barriera o censura, meglio se di notte e sotto l’effetto di un dramma appena consumato.
Infine bisogna spendere qualche parola sulla magistrale colonna sonora curata da Angelo Badalamenti, in cui fanno la loro comparsa musicisti del calibro di Trent Reznor, Marilyn Manson, David Bowie, Brian Eno, Lou Reed, Barry Adamson, i Rammstein e gli Smashing Pumpkins (la loro inedita “Eye” resta uno dei brani più belli che abbiano mai scritto).
“Strade Perdute” dunque inganna pur con la sua logica malsana, ponendosi come film simbolo di un’epoca in cui Lynch ama giocare a scacchi con la psicologia, quella dei personaggi e ovviamente quella degli spettatori. Un confronto tra razionale e irrazionale destinato a squarciare il buio fino ad aprire un buco nero, dove tutto è concesso e nel quale materia e antimateria si uniscono nel più feroce degli amplessi. Tutto questo in attesa di “Mulholland Drive” (2001), l’apice del sublime lynchiano disegnato dall’inconscio.
(Paolo Chemnitz)
Film eccezionale, primo atto di una non dichiarata trilogia moebusiana un cui l’accumulo di informazioni infittisce il mistero impedendo alla trama di sciogliersi. Mulholland drive e inland empire completeranno il discorso.5 stelle su 5
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