Kid-Thing

kid-thingdi David Zellner (Stati Uniti, 2012)

“Kid-Thing” è una pellicola indipendente americana passata sugli schermi del Sundance Festival nell’ormai lontano 2012. Novanta minuti scarsi capaci di offrire allo spettatore delle sensazioni alquanto stranianti, vissute attraverso gli occhi di una bambina di dieci anni.
Il regista David Zellner ci porta a spasso tra le campagne non lontane da Austin (Texas), dove la piccola Annie (brava e credibile Sydney Aguirre) gironzola in solitudine combinando un guaio dopo l’altro. La scuola è stata momentaneamente chiusa per una fuga di gas, mentre suo padre è un rude fattore che trascorre più tempo con le capre che con lei: da qui una solitudine e un’instabilità mentale purtroppo pericolosa anche per gli altri, Annie infatti se la prende con i suoi coetanei e con gli animali (vivi o morti non fa differenza), attraverso una serie di comportamenti da futura psicopatica non troppo dissimili da quelli poi visti nel valido “The Boy” (2015). Ma c’è di più, perché la ragazzina scopre un pozzo da cui arriva una richiesta di aiuto, una donna di nome Esther è finita là sotto e nessuno tranne Annie può far qualcosa per portarla in salvo.
Se “Kid-Thing” fosse stato ambientato nel cuore di uno scenario degradato e apocalittico, avremmo potuto tranquillamente accostare David Zellner al suo più blasonato collega Harmony Korine: le influenze ci sono (pure nella regia), perché questo film risulta dannatamente weird in molti punti, anche quando il regista cerca di far prevalere gli aspetti drammatici delle vicende. Le strambe azioni quotidiane della piccola Annie sono convincenti, un po’ meno il suo rapporto con quella figura nel pozzo che non vediamo mai, un alter ego diabolico (il riferimento all’inferno non è casuale) che ci permette di tracciare il sentiero psicologico della protagonista (non c’è dubbio che “Kid-Thing” sia un vero e proprio coming of age).
Quello che resta sul piatto è un film dalle buone potenzialità espresse con discreta convinzione: oltre infatti alle interessanti riflessioni sulla possibilità di crescere senza una guida all’interno della famiglia (con risultati privi di equilibrio e di morale), David Zellner evita di scadere nel didascalico lasciandoci con un finale poco consolante in cui i dubbi si accavallano come nuvole minacciose sulla giovane biondina. Non a caso lo stesso regista ha affermato da qualche parte di essere rimasto molto colpito dalla visione di “Mouchette” (1967) di Robert Bresson. Ecco che allora il cerchio si chiude, con la speranza che muore al suo interno.

3,5

(Paolo Chemnitz)

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