di Wolfgang Petersen (Germania Ovest, 1981)
Chi ha avuto la possibilità di vedere “U-Boot 96” dal 1997 in poi, molto probabilmente si è imbattuto nella director’s cut, una versione definitiva di ben 209 minuti ridoppiata per l’occasione dagli stessi attori che tanti anni prima presero parte al film. Tre ore e mezza in cui l’approfondimento dei personaggi diventa di primaria importanza, anche perché a differenza di molte altre pellicole ambientate durante la guerra, “U-Boot 96” è pura claustrofobia in fondo al mare. Tuttavia le peculiarità che rendono (quasi) unica l’opera di Wolfgang Petersen non di fermano di certo qui: stavolta infatti non viviamo la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista degli alleati, poiché seguiamo senza un attimo di tregua un manipolo di marinai nazisti in missione lungo le coste francesi che guardano all’oceano Atlantico. Per il regista teutonico non importa la divisa indossata, ciò che conta è l’umanità di questi uomini, i quali diventano tutti uguali davanti agli orrori del conflitto.
Dopo una nottata alcolica (e goliardica) nella base di La Rochelle, iniziamo a conoscere tutti i membri dell’equipaggio, da quelli più esperti (il Tenente Werner e il Capitano Henrich Lehmann-Willenbrock, detto Der Alte) ad altri non meno importanti (nel cast c’è anche Erwin Leder, due anni dopo lo rivedremo nelle vesti di uno psicopatico nel capolavoro “Angst”). La vita all’interno di un sommergibile è fatta di interminabili attese, di sporcizia e di promiscuità, non c’è modo di respirare dentro quei lunghi corridoi metallici pieni di macchinari. Tra momenti di calma piatta e altri in cui l’azione si fa più tesa ed esasperata, “Das Boot” (questo il titolo originale del film) procede spedito senza schierarsi da nessuna parte, perché è il realismo a trionfare, la paura e il terrore di finire colpiti da un missile per poi morire come topi in gabbia nelle più cupe profondità del mare.
La pellicola, ispirata all’omonimo romanzo scritto nel 1973 da Lothar-Günther Buchheim, è stata girata in sequenza dal 1979 fino al 1981, in modo tale da far apparire gli attori sempre più luridi e con la barba incolta, lasciandoli in balìa del tempo e degli eventi: grazie a questo espediente, “U-Boot 96” punta direttamente sulla tensione psicologica dei protagonisti e non sulla spettacolarizzazione della guerra, trasformandosi praticamente in un survival movie travestito da kolossal. Un film dunque nerissimo, avvalorato da ottime scenografie e da una bella colonna sonora diventata persino un tormentone all’inizio degli anni novanta (un progetto denominato U96 fece uscire il main theme in chiave techno).
Le battute finali, per nulla consolanti, chiudono il cerchio in maniera perfetta, alla luce di una lunga avventura destinata a concludersi con l’ennesimo spettro della morte che si materializza davanti a questi marinai: “U-Boot 96” ci piace proprio per tale motivo, perché non deve per forza celebrare la vittoria contro un nemico, mettendosi invece nella posizione scomoda delle vittime (in questo caso i nazisti, ma il discorso ovviamente riguarda tutti quei soldati costretti a prendere ordini per combattere una guerra loro malgrado). Un conflitto ancora più sporco, poiché vissuto nel ventre oscuro di un sommergibile, dove anche le piattole contribuiscono ad affossare il morale della truppa.
(Paolo Chemnitz)