di Lucio Fulci (Italia, 1982)
Il declino di Lucio Fulci non è stato lento e impercettibile, perché con “Manhattan Baby” è ancora il 1982 (il valido “Lo Squartatore Di New York” è dello stesso anno) eppure il regista scivola giù dentro un abisso dal quale mai più si risolleverà. Un passaggio tutt’altro che indolore dalla grande stagione del cinema horror (la sua celebre trilogia della morte si è appena conclusa) a una serie di opere dimenticabili, come se una maledizione si fosse abbattuta non solo sui protagonisti di questa pellicola. Per giunta “Manhattan Baby” nasce come un prodotto supportato da un budget piuttosto elevato per il genere (ottocento milioni delle vecchie lire), soldi poi ridotti a meno della metà per un risultato finale davvero povero di sostanza.
Dardano Sacchetti (in combutta con Elisa Briganti) scrive una sceneggiatura destinata a tirare di nuovo in ballo l’horror metafisico, facendo collimare quest’ultimo con una storia legata al malocchio: l’incipit non è affatto da buttare (ci troviamo in Egitto), anche perché tutte le vicende iniziali incentrate sull’archeologo George Hacker (Christopher Connelly) e sull’amuleto che riceve in regalo sua figlia Susie (Brigitta Boccoli) lasciano ben sperare per il prosieguo degli eventi, riportando in mente “L’Esorcista” (1973) e tante altre pellicole di questo tenore. Una volta però atterrati a New York, l’opera perde completamente la sua forza, messa in ginocchio da una regia svogliata, da una recitazione mediocre (ancora peggio quando la bambina comincia a urlare) e da una serie di scenografie tristemente scarne di contenuti.
Lucio Fulci detestava questo lavoro, non a caso “Manhattan Baby” mise fine alla sua collaborazione con il produttore Fabrizio De Angelis, al contrario molto convinto delle possibilità del film: con questi presupposti è facile immaginare cosa sia accaduto dietro le quinte, un caos che di riflesso rinveniamo tra questi fotogrammi mai del tutto convincenti, spesso tediosi e a tratti raffazzonati. Si risparmia anche sul sangue, nonostante la scena da guilty pleasure degli uccelli impagliati, un passaggio cult che per un attimo ci riporta alla memoria il grande Fulci di alcuni mesi prima.
“Manhattan Baby” non è di certo paragonabile alle ultime atrocità girate dal regista a fine carriera, ma rimane comunque un film insufficiente, privo di ritmo e pesantemente danneggiato dai tagli di budget: un peccato, perché la deriva metafisica (l’occhio come via di accesso per un’altra dimensione) poteva regalarci molte soddisfazioni al di là di una narrazione poco lucida e incisiva. Simboli e significati che col trascorrere dei minuti vanno a farsi benedire, spalancando la porta del baratro per un regista ormai a corto di cartucce. Lo stesso Fulci definì “Manhattan Baby” un incidente di percorso, una sbandata che purtroppo ha segnato per sempre la sua carriera.
(Paolo Chemnitz)