di Shinya Tsukamoto (Giappone, 1992)
Il manifesto cyberpunk “Tetsuo: The Iron Man” (1989) ha dato il via a una trilogia poi proseguita con questo lavoro e con il più recente “Tetsuo: The Bullet Man” del 2009. Oggi ci soffermiamo sul secondo capitolo uscito nel 1992, una sorta di rielaborazione dell’esordio in cui Shinya Tsukamoto cambia molte cose, proprio per evitare di scivolare nei classici stereotipi da sequel: l’utilizzo del colore qui accompagna un impianto narrativo più elaborato, idee e intuizioni che però si scontrano inesorabilmente con la potenza sovversiva del primo film, un paragone scomodo che non ha mai portato fortuna alla pellicola in esame. Proviamo dunque ad analizzare “Tetsuo II: Body Hammer” senza per forza dover tirare in ballo il capolavoro del 1989.
Taniguchi Tomoo, sposato con Kana e padre di un bambino, è stato adottato all’età di otto anni e non ricorda nulla di quanto gli sia successo prima: questa informazione ci torna utile nelle battute conclusive del film, quando scopriamo il rapporto che unisce Tomoo al personaggio di Yatsu (interpretato dallo stesso regista), il capo di una gang che gli ha appena rapito il figlio. Tutto quello che accade in precedenza verte invece sulla mutazione del protagonista, capace di subire una metamorfosi meccanica che lo trasforma in una vera e propria macchina da guerra assetata di vendetta.
Tsukamoto lascia in disparte le metafore erotico-distruttive dell’opera originaria, catapultandoci verso lidi puramente action che tentano di percorrere nuove strade all’interno di una realtà post-industriale sempre ben definita. Poco più di ottanta minuti che funzionano ma fino a un certo punto, proprio per una debolezza concettuale difficile da afferrare nel corso della storia. Ovviamente il contorno è di tutto rispetto: lo score rumorista di Chu Ishikawa non tradisce affatto le aspettative, così come convince l’utilizzo del colore, contraddistinto da improvvisi cambi di tonalità ora bluastri ora più caldi e pastosi. La regia poi affina ancora di più la sua lama, insistendo sul montaggio frenetico nonostante una maggiore dilatazione temporale, un’arma a doppio taglio che per certi versi addormenta un po’ troppo le vicende.
In poche parole “Tetsuo II: Body Hammer” non è un capolavoro ma non è neppure un brutto film: se per qualcuno siamo davanti a un’appendice dimenticabile di “Tetsuo: The Iron Man” (ipotesi poco condivisibile), è importante rimarcare le similitudini che invece intercorrono tra questo prodotto e il successivo eccellente “Tokyo Fist” (1995), quest’ultimo da leggere come un’evoluzione estetica del lungometraggio in esame (e non solo, perché il processo a cui assistiamo in “Tetsuo II” include anche il dolore e lo sforzo fisico presenti in “Tokyo Fist”). Al di là dunque del rapporto uomo-macchina, questa pellicola si apre a un principio di umanizzazione poi ricorrente in alcuni lavori del regista, il risultato di un azzeramento/livellamento tra natura e artificio destinato a prendere il largo nel cuore di una metropoli sempre più opprimente (lo vedremo ancora meglio in “Bullet Ballet”). Una trasformazione tragica e violenta che non lascia speranze, perché nella società liquida e fluttuante di Shinya Tsukamoto (citando le opere di Zygmunt Bauman), il passaggio dall’ordine al caos primordiale è una costante. Se l’azione avesse lasciato più spazio a questi affondi più introspettivi, “Tetsuo II” sarebbe stato superiore di un paio di gradini.
(Paolo Chemnitz)