Rosemary’s Baby

rosemary's babydi Roman Polanski (Stati Uniti, 1968)

All’interno della cosiddetta trilogia dell’appartamento, “Rosemary’s Baby” è il film nettamente più famoso di Roman Polanski, non a caso su IMDb è stato votato da quasi duecentomila persone, al contrario di “Repulsion” (1965) e “L’Inquilino Del Terzo Piano” (1976), entrambi al di sotto delle cinquantamila unità. Una differenza abissale che però non rispecchia affatto quella qualitativa, perché se “Rosemary’s Baby” è un vero e proprio manifesto del cinema demoniaco, lo deve anche ai tragici eventi accaduti durante l’anno successivo, quando gli scagnozzi di Charles Manson uccisero Sharon Tate (da poco sposata con Polanski) nella sua lussuosa villa californiana. Un immaginario che si è dunque alimentato a dovere, spinto da quel vento che stava letteralmente rimodellando la società americana e la sua borghesia rampante, all’epoca sempre più affascinata dalla ricchezza e dal potere (anche a costo di scendere a patti con il maligno).
Chi è allora Rosemary Woodhouse? La giovane Mia Farrow interpreta un personaggio che appartiene al passato, una donna semplice che prima di trasferirsi a New York aveva sempre vissuto lontano dalla mondanità. Il suo carattere, più dolce e ingenuo, entra subito in contrasto con quello del marito Guy Woodhouse (un fin troppo legnoso John Cassavetes), attore di teatro deciso a intraprendere una carriera importante. Roman Polanski costruisce la tensione in maniera sapiente attorno a questa coppia, disseminando il terreno di piccoli indizi e di sospetti che lentamente ci trascinano tra le braccia dell’orrore: in realtà le dinamiche legate a “Rosemary’s Baby” sono più vicine a quelle del thriller/dramma psicologico, ma alcuni squarci visionari (il sabba) e le tematiche trattate ci conducono spesso in territori più cupi e inquietanti, fonte di ispirazione per un’intera generazione di pellicole horror successive.
Se già l’omonimo libro (pubblicato da Ira Levin nel 1967) aveva scosso sia la critica che il pubblico, con l’opera di Polanski si materializza definitivamente l’ambiguità di un periodo storico molto controverso, anche per via dell’ascesa di nuovi culti religiosi. Prima di essere bollato come un film sulla stregoneria, “Rosemary’s Baby” è dunque un lungometraggio incentrato sul lato oscuro della società occidentale dei mid-60s (i fatti si svolgono nel 1966). Questo cinema della paranoia si rispecchia infatti profondamente nel clima newyorkese dell’epoca, contestualizzando le paure della protagonista in maniera molto più reale di quanto si possa credere: l’ultimo livello è rappresentato dal compromesso, dall’accettazione di un nuovo status in grado di garantire la tanto agognata prosperità. Il carattere istrionico e invadente della vicina di casa Minnie Castevet incarna quindi la tentazione, la capacità di circuire e ingannare, è il serpente che offre la mela (in questo caso l’onnipresente radice di Mandragora). Una volta appreso il meccanismo, non c’è modo di tornare indietro.
In un’ipotetica scala di valori, siamo ancora convinti che “L’Inquilino Del Terzo Piano” sia il vero capolavoro della trilogia, soprattutto perché capace di condensare al meglio gli aspetti più tragici del cinema polanskiano, come l’angoscia e il senso di claustrofobia. Questo senza nulla togliere a una pellicola dall’impatto devastante, la cui fama come abbiamo visto si è ampliata a macchia d’olio per tanti motivi, non solo riconducibili al valore stesso dell’opera. Attraverso “Rosemary’s Baby” è possibile approcciare l’affascinante caos che ha sconvolto l’America dopo la metà degli anni sessanta, quando simbolicamente da qualche parte è nato il tanto temuto avversario di Cristo.

4,5

(Paolo Chemnitz)

rosemary's

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