di Matteo Garrone (Italia, 2002)
Anche se qualcuno se ne è accorto un po’ in ritardo (con il recente “Dogman”), non è certo una novità il fatto che Matteo Garrone sia un regista capace di trasformare in oro alcune vicende di cronaca nera accadute nel nostro paese. Era già capitato con “Primo Amore” (2004) e ancora prima con “L’Imbalsamatore”, la sua pellicola più vicina al noir nel senso stretto del termine, soprattutto per via di atmosfere sempre più plumbee e soffocanti (la nebbia che avvolge i protagonisti nelle battute finali del film) e per un valido score musicale cupo e notturno.
La storia è ispirata al caso di Domenico Semeraro (detto il nano di Termini), un tassidermista omosessuale innamoratosi perdutamente di un giovane che lavorava da poco nella sua bottega. Garrone sposta gli eventi da Roma a Castel Volturno, cambiando a suo piacimento alcuni aspetti delle vicende ma non modificandone in nessun modo la sostanza: il nano diventa Peppino Profeta (un magnifico Ernesto Mahieux), mentre il ragazzo (interpretato da Valerio Foglia Manzillo) qui diventa semplicemente Valerio. Quello di Peppino è un personaggio affabile, simpatico e generoso ma allo stesso tempo anche losco e ambiguo, non a caso il rapporto umano e professionale tra i due, inizialmente perfetto, tende a incrinarsi sempre di più quando Valerio si innamora di una ragazza (Deborah) conosciuta durante una trasferta a Cremona. Una volta scoperte le carte, gelosie e rancori prendono il sopravvento fino a far esplodere le emozioni represse dei vari personaggi, tutti destinati a prendere parte a un epilogo tanto tragico quanto inevitabile.
“L’Imbalsamatore” è un lavoro dove non ci sono né buoni né cattivi, una prerogativa che non ci permette di parteggiare apertamente per una fazione o per l’altra: questa è una storia in cui l’ossessione e l’amore morboso per una persona si trasformano in un sentimento pericoloso, un percorso subdolo che il regista dosa attraverso una sobrietà di fondo davvero mirabile e senza mai forzare i tempi narrativi. Tutto ciò all’interno di un paesaggio marittimo tetro e decadente, minacciosamente fotografato con luci fredde, bluastre, opprimenti.
Nonostante sia abbastanza complicato districarsi nel cinema italiano contemporaneo alla ricerca di prodotti validi, ormai è assodato che con Matteo Garrone andiamo quasi sempre sul sicuro: non resta che augurarsi un suo ritorno a una dimensione meno mainstream (quanto è stato utile girare “Pinocchio”?) che contempli pellicole puramente drammatiche legate a qualche aspetto torbido della nostra realtà. “L’Imbalsamatore” è un fulgido esempio di come sia possibile apprezzare un noir italico di spessore senza dover per forza pescare all’estero dai soliti francesi o da qualche produzione asiatica: considerando l’anno di realizzazione (il 2002), quello del regista romano è addirittura un piccolo miracolo in mezzo alle tante pellicole usa e getta che ci propinavano all’epoca.
(Paolo Chemnitz)