Oasis

oasisdi Lee Chang-Dong (Corea del Sud, 2002)

Se “Oasis” fosse stato girato a Hollywood, probabilmente sarebbe uscita fuori una delle più patetiche storie strappalacrime di sempre. Per fortuna ancora oggi nessuno ha avuto la bizzarra idea di farne un remake americano, lasciando al sempre ottimo Lee Chang-Dong l’ingrato compito di essere stato l’unico a saper maneggiare con cura una tematica così controversa, in cui l’onestà intellettuale del regista diventa fondamentale per la riuscita stessa del prodotto. Ecco perché “Oasis” è considerato a ragione uno dei migliori film coreani usciti all’inizio del nuovo secolo.
Jong-Du è lo scemo del quartiere, uno svitato con qualche visibile ritardo mentale appena rilasciato dal carcere: un uomo inaffidabile il cui recupero è praticamente impossibile, lo sanno bene anche i suoi congiunti che devono cercare di arginare i suoi comportamenti apertamente borderline. Un giorno il protagonista si presenta alla porta di una famiglia che in passato aveva avuto a che fare con lui (Jong-Du aveva investito e ucciso un loro parente), mosso da un senso di colpa per nulla apprezzato da questi individui. Nonostante il balordo sia immediatamente cacciato via, egli mette gli occhi sulla giovane Gong-Ju, una ragazza disabile affetta da una grave paralisi cerebrale che vive proprio tra quelle mura. Tra i due scocca così una scintilla clandestina destinata a distruggere per sempre la loro esistenza.
In due ore abbondanti di visione, la regia asciutta di Lee Chang-Dong si mette quasi in disparte, lasciando libera azione a questi due emarginati che da soli riescono letteralmente a trascinare la pellicola: le interpretazioni di Sol Kyung-Gu e di Moon So-Ri sono infatti talmente stratosferiche da riuscire a comunicarci allo stesso tempo poesia (le fughe oniriche), amore e tenerezza ma anche imbarazzo e sgradevolezza (le immagini nel ristorante lasciano un segno più che indelebile). C’è anche la sequenza di un tentato stupro che si commenta da sola, poiché messa in scena senza alcuna ipocrisia, in tutta la sua naturale e reale ripugnanza.
L’inafferrabile oasi di pace sognata da questi improbabili amanti viene continuamente messa in discussione dalle istituzioni (che sia la famiglia o la polizia nulla cambia), incapaci di accettare una relazione intrapresa da due individui privati della possibilità di comunicare con il prossimo. Eppure Jong-Du e Gong-Ju insieme sembrano felici, poiché simili nella loro diversità, nonostante i limiti dettati da un rapporto complicato per non dire irrealizzabile. Lontano dunque dai più sofisticati scenari di marca thriller, il cinema coreano riesce a farsi rispettare anche in ambito puramente drammatico, sbattendoci in faccia senza alcun pietismo argomenti duri come la solitudine e la disperazione: Lee Chang-Dong svolge il suo compito senza sbavature, anticipando una tematica poi ripresa (con altre modalità) dal suo connazionale Lee Hae-Jun con l’altrettanto ottimo “Castaway On The Moon” (2009). Solo che questa volta la visione non è affatto gratificante, perché l’impotenza e la rabbia si impossessano di un film che purtroppo lascia solo l’amaro in bocca.

4,5

(Paolo Chemnitz)

oasis1

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