Sonatine

sonatinedi Takeshi Kitano (Giappone, 1993)

Per una serie di motivi, nel 1993 si chiude la prima fase artistica di Takeshi Kitano. “Sonatine” (uno dei suoi film più amati e celebrati dal pubblico) lascia esplodere definitivamente la sua poetica cinematografica: questo percorso viene però ridimensionato e riformulato durante l’anno seguente, quando il regista rimane vittima di un grave incidente motociclistico che segna inesorabilmente i suoi lavori successivi. “Sonatine” è dunque il primo apice che sdogana il nome di Kitano in giro per il mondo (l’opera viene proiettata a Cannes), una pellicola tra le più significative dell’intero cinema giapponese dei 90s, forse anche superiore agli stessi “Hana-Bi” (1997) e “L’Estate Di Kikujiro” (1999) da lui diretti nella seconda parte di quel decennio.
Beat Takeshi (il soprannome di Kitano lo conosciamo tutti) interpreta magnificamente il protagonista Murakawa, un criminale ormai al tramonto costretto però a un ultimo importante incarico: il boss della yakuza Kitajima lo obbliga infatti a recarsi presso l’isola di Okinawa, per mettere fine allo scontro tra due bande rivali. Questa missione in realtà di rivela una trappola per il protagonista, un tranello che Murakawa accetta con rassegnazione e disincanto, in attesa di un epilogo liberatorio.
La virata esistenzialista di un gangster/noir come “Sonatine” è solo una delle tante prerogative capaci di rendere unico il lavoro di Takeshi Kitano: nulla è stato scelto per caso, neppure una location simbolo di sconfitta per l’esercito giapponese durante la seconda guerra mondiale. Nonostante questa débâcle sia storica che umana, la spiaggia dove il cineasta ha girato molte sequenze clou del film diventa un luogo di redenzione e di rinascita, un posto che permette ai vari personaggi di poter regredire a uno stato infantile. Attraverso l’ironia e il gioco (con punte di grottesco), Kitano affronta il tema della morte con assoluto rispetto per essa, mettendo sullo stesso piano la malinconia del paesaggio con gli ultimi impulsi vitali dell’essere umano, destinato senza alcuna scappatoia a una fine certa. L’attesa è dunque un elemento ludico che segna il destino.
“Sonatine”, al contrario di tanti yakuza movie o di un certo cinema action occidentale, è un lungometraggio lento e avvolgente, un film che induce alla riflessione più che all’azione: la violenza infatti è relegata solo in alcune scene molto significative, come ad esempio in quella dell’ascensore o in quella dove un povero malcapitato viene torturato con lunghe immersioni nell’acqua. Ma anche questo aspetto dell’opera è capace di trasmettere impotenza (la roulette russa senza proiettili simboleggia un volere impossibilitato a esprimersi o a materializzarsi nella realtà). Tutte queste sensazioni sono avvalorate da una regia sublime e da una colonna sonora poco invasiva ma molto efficace, prerogative che sottolineano il minimalismo vincente di un regista che qui reinventa la narrazione, mettendola al servizio dell’apatia e di un nichilismo latente. Con uno sguardo rivolto al cinema di Jean-Pierre Melville, senza dubbio una fonte di ispirazione importante per l’approccio estetico di Kitano.
“Sonatine” è una di quelle visioni necessarie per comprendere l’infinita bellezza del cinema orientale, un mondo nel quale la cattiveria non era mai stata così innocente. Un gioco per bambini, per finire tra le braccia della morte con il sorriso sulle labbra.

5

(Paolo Chemnitz)

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