di Daniele Ciprì e Franco Maresco (Italia, 1998)
“Un film degradante per la dignità del popolo siciliano, del mondo italiano e dell’umanità, offensivo del buon costume, con esplicito disprezzo verso il sentimento religioso e contenente scene blasfeme intrise di degrado morale”. Attraverso questo feroce attacco frontale, “Totò Che Visse Due Volte” fu bannato in prima istanza dalla commissione per la revisione cinematografica, per poi essere finalmente sbloccato in appello (la distribuzione nelle sale italiane fu comunque molto limitata). Un caos che per una volta si è rivelato utile, permettendo l’apertura di un auspicato dibattito politico sull’argomento, il quale ha dato i suoi frutti proprio nel 1998 con l’approvazione di un disegno di legge volto ad abolire la censura preventiva imposta a un pubblico maggiorenne.
Daniele Ciprì e Franco Maresco li conosciamo bene anche per via del loro programma televisivo Cinico TV, andato in onda su Rai 3 durante gli anni novanta all’interno delle trasmissioni di Enrico Ghezzi: “Totò Che Visse Due Volte” si pone dunque come opera definitiva di questo coraggioso percorso, un film (recitato in dialetto siciliano) che si infila sulla scia del già controverso “Lo Zio Di Brooklyn”, diretto dai due registi nel 1995.
Questa volta le vicende sono divise in tre distinti segmenti, anche se nell’ultimo di essi ritroviamo alcuni protagonisti già visti nei primi due capitoli. La partenza è fulminante, la storia di Paletta (lo scemo del villaggio) è infatti un vero e proprio tuffo nel degrado umano e morale di questa società, una Sicilia in cui mafia e devozione religiosa sembrano convivere a braccetto quotidianamente. Nel secondo frammento, il più lungo e il meno brillante dei tre, tutto ruota attorno alla veglia funebre di un omosessuale benestante, nella cui famiglia è presente anche un fratello (Bastiano) profondamente contrariato riguardo i gusti sessuali del defunto. Infine, nel terzo episodio, i registi si concedono una rilettura alquanto delirante degli ultimi giorni del Messia, tra crocifissioni, bagni nell’acido e stupri (la sodomizzazione al ralenti di un angelo è seguita a ruota dalla scena in cui un minorato mentale violenta una statua della Madonna).
Attraverso il necessario quanto affascinante utilizzo del bianco e nero, Ciprì e Maresco citano Luis Buñuel, Pier Paolo Pasolini e quella melma umana non troppo distante dai quei disgraziati di dostoevskijana memoria. Tutto però viene filtrato dalla deformante lente del grottesco, un approccio capace di rendere realmente unico questo lungometraggio, ancora oggi vero e proprio manifesto dell’estremo italiano di fine secolo. Quello di “Totò Che Visse Due Volte” è un mondo senza Dio, un panorama apocalittico nel quale la religione è solo uno strumento fasullo di controllo del popolo ignorante, ormai mosso soltanto dai suoi istinti bestiali.
Poteva mai un film così pessimista e nichilista essere capito dalla critica benpensante? La risposta è ovviamente negativa, perché questo feroce cinema d’autore è portatore di un messaggio che solo in pochi sono in grado di recepire. Palermo non era mai stata così lurida, così apocalittica, così segnata dalle ferite inferte dall’uomo verso i propri simili: è il male a prevalere in “Totò Che Visse Due Volte”, nonostante il disperato grido di aiuto che risuona dolorosamente tra questi fotogrammi.
(Paolo Chemnitz)
Un film molto coraggioso a mio avviso. Immagino quanto possa aver suscitato scalpore in generale visto quanto il nostro paese è religioso.
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