di Guy Nattiv (Stati Uniti, 2018)
Fin da adolescente Bryon Widner ha manifesto tutte le sue simpatie per l’estrema destra americana, una devozione che lo ha portato a diventare uno dei più temuti skinhead statunitensi di sempre: co-fondatore del movimento suprematista bianco Vinlanders Social Club, l’uomo era facilmente riconoscibile grazie a una serie di tatuaggi sul volto, molti dei quali riconducibili alle sue ideologie. Tutto questo fino al 2005, anno in cui Bryon sposa Julie Larsen e inizia a occuparsi delle tre bambine già cresciute dalla donna e del loro primo figlio, nato nel 2006. Widner abbandona così l’organizzazione e comincia un lungo percorso di redenzione che lo porta a entrare in contatto con l’attivista di colore Daryle Jenkins, legato a un’associazione anti-razzista. Oltre a questo, la rinascita di Bryon si completa con la dolorosa rimozione di tutti i suoi tatuaggi, un processo di grande sofferenza fisica terminato solo dopo alcuni anni. Una storia affascinante raccontata prima dal documentario “Erasing Hate” (2011) e poi da questo “Skin”, di cui esiste anche un omonimo cortometraggio che ha permesso al regista israeliano Guy Nattiv di vincere un premio Oscar.
Il film parte in maniera molto accesa, catapultandoci negli scontri che avvenivano tra le opposte fazioni per le strade del midwest americano, tafferugli che finivano spesso nel sangue. Notiamo fin da subito la prorompente fisicità del protagonista, interpretato da un convincente Jamie Bell, attore celebre fin da ragazzino per “Billy Elliot” (2000). Nonostante Bryon Widner frequenti la peggiore feccia skinhead, la sua conversione non tarda ad arrivare, anche se uscire da quel giro ha il suo prezzo da pagare. Mentre gli eventi vanno avanti seguendo la vita dell’uomo, il regista ogni tanto stacca sulle sequenze della rimozione dei tatuaggi, un profondo tuffo in avanti che anticipa il nuovo percorso battuto da Bryon.
“Skin”, pur essendo un biopic rispettoso dei vari accadimenti incentrati attorno alla figura di questo controverso personaggio, è un lavoro che fin dal (banale) titolo non lascia trasparire molta inventiva: se infatti escludiamo il protagonista, tutto il contorno umano a lui circostante non offre grande spunti, un piattume degno di una serie televisiva da dare in pasto a un pubblico generico. Una discreta regia riesce comunque a tenere a galla il film per le sue due ore complessive di durata, minuti che scorrono abbastanza in fretta grazie al continuo scontro tra gli impulsi autodistruttivi e la voglia di ripartire che c’è in Bryon, unico vero mattatore di un’opera purtroppo annacquata dagli stereotipi di cui sopra e da un’indagine sociale soltanto abbozzata.
Durante la visione del film è impossibile non pensare a una pellicola come “American History X” (1998), il cui spessore cinematografico è però ben superiore a questo prodotto. “Skin” non è certo da buttare via, ma è una di quelle opere che sfiorano una striminzita sufficienza senza lasciare alcun ricordo negli occhi dello spettatore.
(Paolo Chemnitz)
L’ha ripubblicato su l'eta' della innocenza.
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Con “l’estrema destra” il fenomeno skin non c’entra assolutamente nulla. Lo stesso AHx del 1998 risulta film idiota, senza senso logico politicamente e socialmente.
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