di Bartosz M. Kowalski (Polonia, 2016)
Possiamo considerare “Playground” (“Plac Zabaw”) uno degli esordi più controversi di questi ultimi anni, una pellicola che ha fatto tanto discutere al Festival di San Sebastián del 2016, dove alcuni spettatori hanno abbandonato la sala durante la proiezione. Partendo da un fatto di cronaca realmente accaduto, il regista Bartosz M. Kowalski ci sbatte in faccia la semplicità con la quale il male può contagiare chiunque, anche dei ragazzini di neppure tredici anni. Proprio questa riflessione sulla violenza minorile è ciò che scuote la nostra sensibilità, perché prepara il mondo ad accogliere dei futuri adulti già pronti a commettere, anche senza un movente plausibile, i peggiori crimini possibili.
Ci troviamo in una piccola cittadina polacca, è l’ultimo giorno di scuola e attraverso tre didascalie conosciamo uno alla volta i protagonisti del film: da una ragazzina di famiglia benestante passiamo al giovanotto che aiuta il padre invalido costretto su una sedia a rotelle, per poi finire con l’ultimo dei tre, un altro dodicenne dall’indole ribelle (la rasatura dei capelli) per via di una quotidianità casalinga molto opprimente. Tre destini che scivolano giù dentro un imbuto fino a incrociarsi inesorabilmente, prima sui banchi di scuola e poi in un luogo isolato dove accade qualcosa di realmente allucinante, immagini immortalate in campo lungo che sfidano persino la tolleranza dello spettatore più preparato.
Kowalski non cura particolarmente la sceneggiatura (scritta a quattro mani con Stanislaw Warwas), “Playground” ha infatti le sembianze di un documentario che entra con passo felpato nelle case di questi giovani, un’indagine che ci permette di capire quanto sia difficile parlare di normalità in qualsiasi contesto familiare, perché ovunque c’è qualcosa di oscuro che striscia in attesa di esplodere. Non a caso il regista guarda al cinema di Michael Haneke (“Benny’s Video” è un punto di riferimento non trascurabile), così come a quello di Gus Van Sant, omaggiato nelle riprese in cui la telecamera si muove alle spalle dei protagonisti.
Il fatto che “Playground” non offra risposte è piuttosto inquietante: a fine visione è lecito chiedersi cosa sia realmente accaduto a monte degli eventi, ma non ci sono indizi, solo una piccola catena di circostanze che si traducono in una violenza cieca, gratuita e agghiacciante. Questa è la forza di una pellicola shock che nel giro di neppure ottanta minuti ci permette di riflettere sul sadismo già insito, in tenera età, negli esseri umani. Un’indole che può appartenere a chiunque, anche a un cucciolo in apparenza innocuo, dopotutto lo pensava pure un vecchio saggio come Sam Peckinpah (“per me un bambino è nello stesso tempo Dio e il Diavolo: in lui sono mischiate la crudeltà e l’infinita bontà. Il problema è che, essendo il nostro avvenire riposto in loro, un vecchio sistema di morale o d’educazione ci impedisce di guardare in faccia un sacco di verità, per esempio che esiste già nel ragazzino tutto il lato fosco dell’uomo, tutto un potenziale di violenza che non si cerca affatto d’esplorare”). Guardatevi “Playground”, a volte è davvero necessario avventurarsi all’interno di territori così scomodi e sgradevoli.
(Paolo Chemnitz)
Ottima recensione come al solito ma il film si basa sull’orribile omicidio del 1993 a Liverpool di James Bulger, due anni.
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Sono ancora scosso per il finale, non riesco a darmi pace. Qualcuno mi può spiegare come hanno fatto a girarla? O hanno usato il digitale per riprodurre il bambino o è un nano 😅
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