La Ballata Di Narayama

la ballata di narayamadi Shôhei Imamura (Giappone, 1983)

Shôhei Imamura (1926-2006) non solo è stato uno dei più importanti registi della nouvelle vague giapponese, ma si è distinto anche per aver vinto ben due volte la Palma d’Oro a Cannes, nel 1983 con “La Ballata Di Narayama” e nel 1997 con “L’Anguilla”. L’interesse per l’indagine sociale è un tema che ritroviamo spesso nelle sue pellicole, una ricerca che travalica epoche e contesti come accade per l’appunto nel film in esame, ambientato nel Giappone arcaico e rurale del 1860 (l’ispirazione arriva dal racconto “Narayama Bushikō” scritto nel 1956 da Shichirō Fukazawa).
In un villaggio di poche anime nel nord del paese, tutte le persone anziane, una volta raggiunti i settant’anni, devono salire sul monte Narayama e qui lasciarsi morire. Questo rituale serve per garantire un ricambio continuo alla comunità, un inesorabile passaggio di consegne ripreso persino di recente da Ari Aster per il suo “Midsommar” (2019). La vecchia Orin (una bravissima Sumiko Sakamoto) è ancora in buona salute e non vuole abbandonare i suoi figli prima di aver garantito loro un futuro dignitoso, non a caso senza questa figura matriarcale la vita non sarebbe affatto facile sia per Tatsuhei (rimasto vedovo dopo il parto della moglie) che per il secondogenito Risuke. Solo quando gli sforzi di Orin raggiungono l’obiettivo prefissato, per la donna arriva il momento di andare incontro al proprio destino, in un finale poetico e struggente nella migliore tradizione nipponica.
narayamaI cicli della natura rappresentano l’asse portante dell’opera di Imamura, perché l’essere umano in queste condizioni è prima di tutto un animale soggetto alle leggi universali: l’avvicendarsi delle stagioni segue di pari passo la quotidianità di questa gente, un manipolo di individui che agiscono per istinto, esattamente come fanno le bestie (il montaggio analogico del regista non ammette dubbi al riguardo). Anche il sesso è vissuto nella maniera più grezza e viscerale possibile, senza alcuna concessione al sentimento. Questa simbiosi tra corpo e paesaggio è quindi tremendamente impetuosa, pure quando scaliamo la montagna con Orin attraverso quegli spazi angusti disseminati di ossa e di scheletri.
“La Ballata Di Narayama” (remake di un altrettanto splendida pellicola risalente al 1958, “La Leggenda Di Narayama”) non è affatto una passeggiata, questi centrotrenta minuti si prendono infatti tutto il tempo possibile per indagare e per girare attorno ai personaggi, alcuni meno interessanti ma pur sempre fondamentali nell’economia generale del film. Un’opera che conosce persino dei passaggi crudi e violenti, come ad esempio nella scena dei denti (un anticipo rituale rispetto a quanto visto successivamente con “Dogtooth” di Lanthimos) o nelle immagini della fossa comune in cui viene sepolto (vivo) chi non rispetta le regole. Riassaporare di questi tempi un lungometraggio come “La Ballata Di Narayama” può aiutarci dunque a riflettere su due aspetti molto importanti: il primo riguarda il ruolo insostituibile della natura e il rispetto della stessa, ma non è da meno quello sguardo attento e pacato che ci permette di avvertire la forza e la saggezza di una donna anziana, la cui presenza diventa fondamentale per fare strada all’insicurezza delle nuove generazioni.

4,5

(Paolo Chemnitz)

la ballata d n

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