di Richard Stanley (Stati Uniti, 2019)
“Il Colore Venuto Dallo Spazio” non solo è uno dei migliori racconti di Howard Phillips Lovecraft, ma è anche uno dei più influenti per quanto concerne il mondo del cinema fantastico: avevamo già anticipato qualcosa nella recensione de “La Fattoria Maledetta” (1987) di David Keith, senza comunque citare ulteriori lavori che prendono spunto proprio da quest’opera pubblicata nel lontano 1927. Tra gli esempi più recenti, gli italiani Ivan Zuccon e Domiziano Cristopharo hanno realizzato dei lungometraggi liberamente ispirati a tale storia, anche se a livello di risonanza mediatica questa nuova trasposizione firmata Richard Stanley (il regista di “Hardware”, fino a poco tempo fa in formalina) non passerà di certo inosservata.
La trama è risaputa, facciamo giusto un piccolo ripasso: al centro delle vicende c’è una famiglia trasferitasi in campagna con il sogno di coltivare il proprio orticello e allevare gli animali, lontano dal caos della città. Il capofamiglia è Nathan Gardner (Nicolas Cage) e con lui troviamo la moglie Theresa e i tre figli (una ragazza e due maschietti, tutti abbastanza stereotipati). Durante una notte, un meteorite si abbatte davanti alla fattoria dei nostri, portando con sé una misteriosa forma di vita che provoca delle mutazioni nella natura circostante, turbando la tranquillità dei Gardner in maniera orribile e spaventosa.
“Color Out Of Space” è un film che ha degli aspetti positivi ma anche dei connotati poco convincenti: di valido c’è l’atmosfera generale, un mood non troppo distante da un certo umore carpenteriano, incluse le avvolgenti luci violacee che rappresentano la minaccia incombente che si aggira attorno a quel terreno. Proprio qui troviamo dei punti di contatto tra questo lavoro e “Mandy” (2018) di Panos Cosmatos (i produttori per giunta sono gli stessi), un piccolo cult allucinato in cui il protagonista, guarda caso, è Nicolas Cage. L’attore americano dimostra di essere perfettamente a suo agio in questo tipo di pellicole (alla faccia di chi lo dava per spacciato), una seconda vita cinematografica che ci auguriamo possa proseguire su questa strada. Al contrario di “Mandy” però, l’opera di Stanley non è densa e omogenea e le varie situazioni di pericolo che di volta in volta si palesano davanti alla famiglia, non hanno un collante che le lega in maniera salda ed efficace. Anche a livello emotivo, “Color Out Of Space” è abbastanza flebile e non riesce quasi mai a tenere alta l’attenzione più del dovuto.
Spezziamo comunque una lancia a favore del regista, poiché non è per nulla facile rappresentare un orrore di dimensioni cosmiche: nonostante le tante pellicole dedicate al racconto, raramente è stata trovata la chiave giusta per penetrare a dovere nel pensiero lovecraftiano. Proprio per questo motivo, privilegiare le suggestioni (in cui bisogna includere fotografia e sonoro) alla psicologia dei personaggi e al loro destino (di cui ci importa relativamente) è senza dubbio il percorso più naturale da seguire, al di là delle impennate di violenza che fanno sicuramente la loro bella figura. Richard Stanley questo lo ha capito e lo ha messo in scena discretamente bene, anche se “Color Out Of Space” non è proprio un fantahorror di quelli da tramandare ai posteri.
(Paolo Chemnitz)