Punishment Park

punishment parkdi Peter Watkins (Stati Uniti, 1971)

Quando si parla di docudrama, è impossibile non menzionare il nome di Peter Watkins, regista britannico considerato a ragione un pioniere in questo ambito. Le sue opere sono state fortemente influenzate dal legame viscerale che egli aveva stabilito con i movimenti pacifisti anglosassoni, un approccio che condannava apertamente la guerra, i regimi autoritari e il pericolo di nuovi totalitarismi veicolati anche dai mass media. Se nel 1965 Watkins vince l’Oscar con “The War Game” (premiato come miglior documentario), è nel 1971 che esce una delle sue pellicole più dure e inquietanti, “Punishment Park”, un finto doc in cui la fantapolitica convive con i timori di una repressione dai connotati alquanto realistici.
Dal 1950, con l’articolo 2 della legge sulla sicurezza interna, il presidente degli Stati Uniti ha il diritto, senza neanche l’approvazione del congresso, di decidere se nel paese è in atto un’insurrezione e quindi di dichiarare uno stato di emergenza. Il presidente può dunque far arrestare tutte le persone ritenute suscettibili di commettere atti di sabotaggio. Gli individui in stato di fermo saranno interrogati senza rimessa in libertà sotto cauzione o necessità di prove, per essere poi incarcerati dentro dei luoghi di detenzione”. Con queste parole veniamo subito catapultati nel deserto della California, dove vengono radunati tutti gli elementi ritenuti pericolosi dalle autorità governative: hippie, pacifisti, anarchici, giovani in aperta critica con l’establishment, sono loro il nemico numero uno per l’America (nel frattempo impegnata nel conflitto in Vietnam). Per questi soggetti l’unica possibilità di salvezza è una sorta di fuga autorizzata attraverso il deserto, senza viveri e con i militari alle calcagna, un gioco al massacro che Peter Watkins trasforma in un reality show precursore dei tempi. Un atto di denuncia chiaro e lucido che poco ha da invidiare a un vero reportage giornalistico.
giphy“Punishment Park” alterna l’azione ad alcuni passaggi più farraginosi incentrati sulle sequenze che si svolgono in tribunale, situazioni ad alta tensione tutte molto credibili anche se eccessivamente verbose (alcuni dialoghi sono persino improvvisati). Una scelta comunque propedeutica per capire il destino di questi ragazzi, condannati al carcere oppure costretti a subire una caccia al topo dai contorni sadici e perversi. Superato il paradosso iniziale, la distopia di Peter Watkins si rivela qualcosa di molto attuale e tangibile, perché la linea di demarcazione tra democrazia e oppressione delle minoranze non belligeranti è molto meno netta di quello che si voglia far credere, soprattutto in uno stato in cui la violenza spesso è giustificata da un desiderio di sottomissione del prossimo (la tematica dell’imperialismo a stelle e strisce è molto sentita dal regista).
Guerra, politica, religione, “Punishment Park” sarà anche finzione ma penetrare così a fondo nel cancro della società occidentale è una missione da portare avanti fino alla fine, smascherando l’ottusità e la cattiveria gratuita di chi detiene il potere (“volete sapere cosa è immorale? La guerra è immorale! La povertà è immorale! Il razzismo è immorale! La brutalità della polizia è immorale! L’oppressione è immorale! Il genocidio è immorale! Questo paese rappresenta tutte queste cose!”). Un cinema di protesta apertamente schierato, il quale suona ancora oggi come un campanello d’allarme da non sottovalutare.

4

(Paolo Chemnitz)

punishment p

Lascia un commento