di Jan Komasa (Polonia, 2019)
“Corpus Christi” (“Boże Ciało”) è arrivato nella cinquina finale dei film stranieri candidati al premio Oscar, un traguardo che rappresenta già una grande vittoria nonostante in questa categoria il trionfo di “Parasite” sia più che scontato (oltre che meritato). Una bella soddisfazione per un cinema polacco in ottima salute, senza per forza scomodare il nome maggiormente quotato del momento, quello di Paweł Pawlikowski: Jan Komasa non ha infatti un grande curriculum alle spalle, ma con questa pellicola (ispirata a fatti realmente accaduti) egli è riuscito a trovare la chiave giusta per essere tanto attuale quanto scomodo, senza ricorrere a chissà quali espedienti.
Ancora una volta assistiamo a un film che fa breccia nel cuore della Polonia ultracattolica, quella che sta vivendo proprio in questi anni dei forti rigurgiti conservatori e nazionalisti. Il prete protagonista della pellicola è però uno sbandato di vent’anni appena uscito dal riformatorio: si tratta di Daniel (eccellente la prova di Bartosz Bielenia), un teppistello da quattro soldi che finisce in un piccolo paese di provincia, dove per una serie di coincidenze fortuite riesce a far credere di essere un prelato appena uscito dal seminario, conquistando la fiducia dei devoti che frequentano quella parrocchia. La piccola comunità rurale che gravita attorno a lui sta inoltre elaborando il lutto di alcuni concittadini periti in un tragico incidente stradale, uno snodo importante che ci permette di capire quanto il messaggio originario lanciato dal cristianesimo qui finisca schiacciato dall’ipocrisia e dalla spasmodica ricerca di un capro espiatorio estraneo al gruppo su cui far ricadere ogni colpa. Un plot in apparenza elaborato ma in realtà piuttosto lineare e diretto, capace di condurci per mano verso un epilogo di rara potenza in cui Daniel si rivela ai suoi fedeli come figura cristologica (il titolo del film è a dir poco eloquente), la sintesi ideale di una pellicola che proprio attraverso questa trasformazione ci permette di smascherare la disonestà intellettuale del credente, un individuo facilmente manipolabile nel nome della religione (e della politica, se aggiungiamo la presenza del sindaco).
“Corpus Christi” curiosamente condensa le sue scene più dure nell’incipit e nel finale, quello che c’è in mezzo verte infatti su una storia persino curiosa nei suoi sviluppi, dove non è facile intuire fino a che punto Daniel si immedesimi dentro quel nuovo personaggio: il regista è bravo soprattutto nel giocare su questa ambiguità di fondo, mostrandoci un ragazzo convincente nell’improvvisare le omelie ma allo stesso tempo in imbarazzo durante le immagini della confessione. La forza di “Corpus Christi” è proprio questa, porre ogni dubbio davanti a ogni certezza.
Da non sottovalutare è anche il rapporto di dipendenza reciproca che si instaura tra il protagonista e questi devoti cittadini: Daniel ha bisogno di loro per sentirsi finalmente accettato nella società, loro invece non possono fare a meno di un leader spirituale che abbia polso e carisma nel prendere le decisioni. Un sistema circolare destinato inesorabilmente al collasso e che ci riporta, con le sequenze conclusive, esattamente là dove eravamo partiti. Jan Komasa ha realizzato un film che difficilmente sarà gradito da tutti, proprio per via di questo sottile meccanismo capace di smontare pezzo per pezzo alcune verità per molti assolute. Notevole.
(Paolo Chemnitz)