di Iván Zulueta (Spagna, 1979)
Uno dei registi maledetti del cinema spagnolo è stato sicuramente Iván Zulueta, una meteora che in patria ha lasciato un segno indelebile proprio con “Arrebato”. La dipendenza dall’eroina e altri problemi di natura personale non hanno permesso al suo talento di esplodere, oltre al fatto che in pochi, nel 2009, si sono ricordati di omaggiare la sua scomparsa. “Arrebato” non solo è un film fuori dal comune, ma è soprattutto un manifesto del cinema iberico post-franchista, una pellicola anarchica, sperimentale e per molti versi avanguardistica (chiedere a David Cronenberg). Un cult per qualcuno, in realtà un prodotto più bello da raccontare che da gustare seduti in poltrona.
Al centro della storia ci sono due registi, José e Pedro: il primo amante dell’horror, il secondo invece completamente ossessionato dal filmare tutto ciò che lo circonda. Secondo Pedro infatti solo così è possibile cogliere l’intima essenza del cinema, un modus operandi che a lungo andare si trasforma in qualcosa di molto pericoloso. Questo lo scopriamo attraverso la figura di José (un ottimo Eusebio Poncela, poi finito alla corte di Almodóvar), il quale grazie a un misterioso nastro riesce a capire che fine abbia fatto il suo collega ormai scomparso da tempo. Sarebbe troppo semplice se il plot si esaurisse qui, invece “Arrebato” si ribalta di continuo non solo a livello temporale, ma anche aprendosi verso numerose strade simboliche e concettuali.
“Non sono io che amo il film, è il film che ama me”, Zulueta parte dal metacinema per sconfinare in territori alquanto ostici e oscuri: c’è la droga (gli aghi penetrano sottopelle come se nulla fosse), c’è il sesso (erezione inclusa) e c’è soprattutto una tematica legata al vampirismo che combacia proprio con la pellicola stessa, ovvero il cinema che risucchia l’anima del suo realizzatore, portandolo sulla via dell’autodistruzione. La seconda parte di “Arrebato” è molto esplicita a tal proposito, un trip che sfocia in uno psicodramma dai contorni fantastici, surreali, assolutamente estremi (c’è qualcosa in comune tra il nostro Alberto Cavallone e questo approccio così malsano e contorto). Non è inoltre da sottovalutare l’aspetto realistico della pellicola, una sfaccettatura che collima con l’alienazione costante del protagonista. Ecco che allora Zulueta può essere paragonato a un suo collega contemporaneo, quel Bigas Luna che soprattutto con “La Chiamavano Bilbao” (1978) è stato capace di raccontarci le patologie e le morbosità di un povero disagiato. Che egli si muova tra le strade di Barcellona o dentro un appartamento di Madrid, poco cambia.
Al di là della fama di cult movie (meritata o meno sta anche a voi giudicarlo), “Arrebato” è un prodotto imperfetto, un’opera che utilizza troppo (e male) la voce fuoricampo, procurando un certo fastidio durante la visione (il minutaggio è inoltre eccessivo). La sua complessità è sicuramente un’arma a doppio taglio, poiché mai come questa volta si ha la sensazione di essere in bilico tra pretestuosità e genialità: Pedro Almodóvar (che qui ha prestato la sua voce per doppiare il personaggio di Gloria!) lo sa bene, avendo attinto in seguito proprio dal cinema dell’amico Zulueta. Un film da vedere ma con le dovute precauzioni, perché se vi aspettate un capolavoro la delusione potrebbe essere dietro l’angolo.
(Paolo Chemnitz)